Paolo Nori ci ripropone un Dostoevskij da leggere “ad alta voce”

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Paolo Nori ci ripropone un Dostoevskij da leggere “ad alta voce”

13 Maggio 2012

Se la memoria non ci inganna, uno dei tanti aforismi di Nicolás Gómez Dávila sostiene che rientrano nella letteratura tutti i libri che meritano almeno un seconda lettura. La cosa ci convince e ci conferma che l’intera opera di Dostoevskij rappresenta grande letteratura. Leggere un suo romanzo una volta sola non è abbastanza, troppe cose, troppe questioni essenziali ha smosso e rimangono in sospeso. Abbiamo dunque riletto uno dei suoi capolavori, “Memorie del sottosuolo”, con ancora più piacere perché tradotto da uno dei migliori scrittori italiani contemporanei, Paolo Nori, pubblicato dalle edizioni Voland. Nei suoi romanzi Nori eccelle in maniera particolare nel ritmo della narrazione. Dona così alla traduzione una particolare cadenza che ci mette in sintonia con il disperato monologo del protagonista. Nori consiglia di leggere il romanzo ad alta voce, dato che “ha a che fare con la musica”. E noi aggiungiamo che non stona affatto leggere un’espressione d’oggi come “non capisco una mazza”, nella traduzione; sottolinea ancor di più l’attualità dell’opera. Infatti a più di cent’anni dalla stesura, le memorie sono attualissime; come se nel frattempo non fosse successo nulla, se non clamorose conferme di qualcosa di guasto, da aggiustare, nell’essere umano.

Le memorie della creatura di Dostoevskij (un quarantenne convinto che “vivere più di quarant’anni non sta bene, è di cattivo gusto, è immorale”), sono confessioni più prossime in spirito a quelle di Agostino di Ippona piuttosto che a Rousseau. Si sente incombere un medioevo oscuro, il positivismo ha già fallito nel nutrire l’anima dell’uomo. Al mito moderno della volontà generale si sostituisce lo scavo nelle psiche per trovare la vera volontà individuale. L’uomo del sottosuolo è un alieno nella società del suo tempo, (e pure del nostro), pare qualcosa di più antico, di primordiale. È impegnato in un’opera al nero, in una putrefazione interiore, si sente malato, di fegato forse; comunque cattivo, (“Un uomo cattivo, sono. Un brutto uomo, sono io”). O almeno cattivo vuole essere. Ha studiato abbastanza per non essere superstizioso ma riconosce di essere superstizioso; è convinto che “qualsiasi forma di coscienza sia una malattia” e vorrebbe infrangere il muro delle leggi della scienza naturale, “il modo in cui ti dimostrano, per esempio, che vieni dalle scimmie”. Non accetta il “due più due fa quattro”, la matematica che regge la società moderna. Per non far tornare i conti, sabotare questa imposizione, l’uomo del sottosuolo cerca il piacere anche in un mal di denti, sbuca dal suo cunicolo per gridare che due più due può far cinque, che la “ragione soddisfa soltanto le capacità razionali dell’uomo” mentre “la volontà ha a che fare con tutta la vita”. La civiltà promette un mondo senza dolori, ma “che gusto ci sarebbe a volere secondo una tabella?” (secondo statistiche e sondaggi, diremmo oggi).

L’uomo del sottosuolo è un contemplativo, si sente superiore agli “uomini d’azione”, gli indaffarati che “prendono le cause più vicine, e secondarie, per cause prime”. È un vero antieroe, dato che ha perso una grande occasione in gioventù. Nel delirio di vendetta nei confronti di altri uomini d’azione di sua conoscenza, dopo una corsa per le strade di San Pietroburgo bagnata da neve fradicia, era finito in un bordello. Aveva gettato nella disperazione una giovane prostituta schiaffandole in faccia la prospettiva del futuro di squallore e servitù destinatole. Per cattiveria? Per redimerla e redimersi? In ogni caso, solo con lei era stato sincero, si era aperto, intenerito. Fu un fallimento perché l’uomo del sottosuolo mancò quell’occasione offerta dal destino, non riuscì a provare amore per quella ragazza. Era riuscito ad esercitare la volontà su di lei, nel suggerirle di cambiare vita, nel possederla fisicamente, ma il vero amore non aveva bilanciato la volontà. Attaccato al suo piccolo io, si era precluso l’incontro salvifico con l’archetipo femminile, con una donna in carne e ossa. Eccolo dunque condannato all’abisso del sottosuolo.

Una lettera di Dostoevskij racconta che la censura fece dei tagli nelle parti dove si deduceva “la necessità delle fede e di Cristo”; probabilmente ai censori zaristi pareva scabroso accostare il sacro ad una storia di profonda misantropia e prostituzione. Era un mondo che, a differenza di Dostoevskij, non capiva veramente più una mazza, per dirla con Nori. Meno male che le “Memorie” chiamarono fuori dal sottosuolo i migliori scrittori, poeti e filosofi russi, tutti un po’ mistici, in lotta contro la tirannia del due più due uguale quattro.