Parlando di preti e pedofilia la Chiesa tenta di fare chiarezza. I giornali no
14 Marzo 2010
Di pedofilia i giornali farebbero bene a parlare con sobrietà. Sulla pedofilia e i preti cattolici non è il caso di invocare la “castrazione chimica” per i sacerdoti. Qui si esige una delicatezza che non è sempre nelle abitudini dei giornalisti, ma che la drammaticità di questi fatti e quanto di umanamente sordido essi mettono in luce, nonché il rispetto per le vittime, per gli erroneamente accusati, per i tanti preti santi, richiedono. Giornalisticamente parlando sobrietà e delicatezza non significano tacere o minimizzare, vogliono dire più semplicemente, ma anche più esigentemente, chiamare le cose con il loro nome, sforzarsi di presentare tutti i dati della problematica, attenersi ai fatti. In fondo, sobrietà e delicatezza altro non sono che giornalismo.
Il primo elemento da mettere in luce è la drammaticità umana del fenomeno della pedofilia in sé e della pedofilia praticata da ecclesiastici. Su questo la Chiesa cattolica ha parlato chiaro. “Non ci sono scuse”; “Un crimine odioso”; “Le ferite causate da simili atti sono profonde”; “Esistono cose che sono sempre cattive, e la pedofilia è sempre cattiva”; “un comportamento che la Chiesa non manca e non mancherà di deplorare e di condannare”; ”non solo un crimine atroce, ma anche un grave peccato che offende Dio e ferisce la dignità della persona umana”. Ecco alcune delle recenti espressioni con cui il papa ed altri prelati si sono riferiti a questi fatti.
Il secondo elemento da far presente è che sì, per lungo tempo, e colpevolmente, queste cose sono state tenute nascoste, coperte per difendere l’immagine della Chiesa e i sacerdoti coinvolti sono stati spesso trasferiti ad altra sede ma non denunciati e non sospesi dagli incarichi educativi e pastorali. Il caso irlandese dimostra ampiamente tutto questo. Da tempo però la linea è cambiata e la Chiesa non solo intende collaborare con le autorità civili in questa materia, ma ha messo in atto molte misure interne di garanzia contro questi fenomeni. E’ anche per questo, probabilmente, che dal 2002 non si ha notizia di casi di pedofilia tra il clero cattolico tedesco.
Qualche giorno fa il vescovo di Regensburg Müller ha reagito contro la dichiarazione del ministro della Giustizia, Sabine Leutheusser-Schnarreberger, secondo la quale la Chiesa cattolica in Germania ostacolerebbe le indagini nei casi di abuso sessuale. La Conferenza episcopale tedesca ha diramato a tutte le diocesi delle direttive precise: esame immediato della segnalazione di un abuso, eventuale richiesta di autodenuncia all’accusato, eventuale informazione alla magistratura. Uscito giovedì scorso da un colloquio con il papa, il presidente del vescovi tedeschi, Robert Zollitsch, arcivescovo di Freiburg im Breisgau, ha riconfermato l’impegno della Chiesa tedesca ad applicare e a migliorare quelle “Direttive”, soprattutto nell’aiuto alle vittime e alle loro famiglie, nella accusata scelta della persona in ogni diocesi deputata a fare da “telefono azzurro” per casi di questo genere e mediante la nomina del vescovo di Trier, Stephan Ackermann ad incaricato speciale per tutte le questioni collegate agli abusi sessuali. Questa volontà di fare chiarezza riguarda anche il passato e le misure prese intendono avere una funzione preventiva per il futuro anche se tutti sanno (e dicono) che la ferita sarà lunga da rimarginare.
Detto questo e senza minimamente voler coprire nessuna responsabilità, bisognerà però anche quantificare il fenomeno e considerarlo nei suoi termini reali. Si sa che in queste cose la quantità non è l’aspetto decisivo. Anche il male, come il bene, ha una sua misteriosa assolutezza che non dipende da “quante volte” è stato fatto. Tuttavia, per ovvie ragioni di aderenza alla realtà, bisogna anche sottolineare che una cosa sono le denunce e un’altra cosa le sentenze pronunciate dopo l’accertamento dei fatti. Bisogna anche distinguere quanto sono responsabili i sacerdoti in prima persona e quanto il personale che opera nelle loro strutture educative e pastorali. Bisogna, probabilmente, anche verificare la percentuale di casi di abusi tra il clero e la percentuale presso altre categorie di persone. Oppure se questi casi accadono solo o prevalentemente tra il clero cattolico, come sembra in questi giorni a chiunque legga i giornali, oppure anche in altre confessioni, come per esempio i protestanti. Molti dati di attendibili ricerche ridimensionerebbero notevolmente l’incidenza di questi abusi tra il clero cattolico in rapporto ad altri contesti.
Una simile analisi è di grande importanza perché può sembrare che esista una corrispondenza molto stretta tra essere prete ed essere pedofilo, il che assolutamente non è ed anzi può essere considerato lesivo della dignità di tanti sacerdoti e religiosi. Né ci sono dati che possono collegare la pedofilia con il celibato dei preti, ribadito nella sua validità non solo teologica ma anche pastorale da tutti gli interventi del papa di questi ultimi giorni, tra cui il discorso al convegno sul prete tenutosi all’Università lateranense venerdi scorso. Il teologo Hans Küng e tutta l’ala “progressista” sembra quasi più interessata a togliere il celibato che a lottare contro la pedofilia.
Il punto fondamentale non è tanto questo del celibato quanto quello, più generale, della identità del sacerdote (cattolico) nel mondo di oggi. E’ bene che dai casi particolari si passi a riflettere su quelli più generali e di struttura. Una riflessione di questo genere riguarda naturalmente la Chiesa cattolica per prima, ma non è un tema estraneo anche alla società nel suo insieme. Avere buoni sacerdoti è interesse di tutti e nella nostra esperienza di vita, sia essa poi confluita nella fede o meno, tutti abbiamo in mente qualche figura di sacerdote che ci ha trasmesso qualcosa di profondo ed autentico o qualche altro che, invece, ci ha deluso.