Parlare di giustizia distributiva ai tempi della crisi e non perdersi nell’ideologia

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Parlare di giustizia distributiva ai tempi della crisi e non perdersi nell’ideologia

03 Giugno 2012

E’ noto quanto il tema della giustizia distributiva sia oggi considerato importante. Nei Paesi europei, per esempio, molti partiti hanno aperto il dibattito sui costi del “welfare state”, sostenendo l’opportunità di ridurli per favorire la crescita economica. Negli Stati Uniti, d’altro canto, è diventato popolare lo slogan “Chi deve cosa a chi”. A essere messa in gioco – è essenziale sottolinearlo – risulta la stessa nozione di solidarietà, secondo cui la società deve farsi carico dei suoi membri più deboli mediante una redistribuzione delle risorse disponibili.

In questo caso un approccio di tipo pragmatico può risultare più utile dei continui richiami a presupposti ideologici di fondo. Si può allora rilevare che non solo diverse distribuzioni di risorse, ma anche differenti “procedure” per effettuarle possono essere più o meno giuste. Se prendiamo in considerazione due modelli di distribuzione, il primo totalmente giusto e il secondo ingiusto, e poi operiamo la nostra scelta tirando in aria una moneta, non utilizziamo una procedura di tipo razionale. Anche se per ipotesi ottenessimo in questo modo una distribuzione appropriata delle risorse, gli interessi fondamentali della giustizia distributiva non verrebbero rispettati. Ne segue che i rispettivi meriti della distribuzione e delle procedure di distribuzione non possono essere assimilati. Naturalmente la scelta migliore è quella di tipo ideale: “la distribuzione giusta assegna le risorse a chi ne ha effettivamente bisogno”. Ma conosciamo la difficoltà di realizzare gli ideali nelle circostanze della vita quotidiana, ragion per cui sembra più ragionevole trovare strategie alternative.

L’approccio pragmatico cui prima accennavo suggerisce di abbandonare la discussione sulla natura ideale – e in quanto tale astratta – della giustizia distributiva, per concentrarsi invece sulla verifica della quantità totale di beni che possono essere effettivamente distribuiti. È chiaro, infatti, che la situazione cambierà a seconda che ci si trovi a fronteggiare una situazione di scarsità oppure di abbondanza delle risorse disponibili.

Si può allora sostenere che una teoria della giustizia distributiva che non prenda in considerazione i fattori economico-produttivi, limitandosi ad insistere sull’equità della distribuzione dei beni, è gravemente carente. In altri termini occorre rammentare che la stessa nozione di “giustizia”, lungi dall’essere un’idea autosussistente e inalterabile, muta in funzione delle particolari circostanze storiche, sociali e ambientali in cui si opera. La giustizia realizzabile in una situazione di scarsità non è la stessa giustizia praticabile quando vi è un’abbondanza di beni da distribuire.

È dunque la nozione economica di “produzione”, e non quella astratta di giustizia, a svolgere il ruolo chiave in questo contesto. I problemi della distribuzione “giusta” sono fondamentali in un’economia di scarsità e diventano meno importanti in una situazione di abbondanza, mentre potrebbero addirittura non sorgere quando il bene da distribuire risulti sovrabbondante.

Si può allora distinguere: (1) un concetto più ristretto secondo il quale la giustizia è semplicemente l’equità, e (2) un concetto più vasto in cui la giustizia coincide con il “bene comune”. Il problema è che (1) e (2) possono entrare in conflitto. Supponiamo, infatti, di avere tre individi che meritano le stesse risorse, e due modelli di distribuzione: (a) e (b). Se scegliamo il modello (a), i tre individui si vedrebbero attribuire una quantità identica di beni. Scegliendo il modello (b), invece, i primi due riceverebbero la stessa quantità di beni, mentre al terzo andrebbe una quantità più grande. Tuttavia, l’ammontare totale dei beni fornito da (b) è assai maggiore di quello che (a) può assicurare, cosicché, in ultima analisi, tutti e tre gli individui sarebbero avvantaggiati dall’adozione di (b).

Qual è il modello migliore? Un pragmatista direbbe che non esiste un’unica risposta valida a questa domanda. (a) si fa preferire dal punto di vista della giustizia intesa come equità, mentre (b) diventa preferibile se prendiamo in considerazione gli interessi generali (ossia il “bene comune”) dei tre individui di cui sopra. Indubbiamente un marxista sceglierebbe il modello (a), poiché a suo avviso l’eguaglianza assoluta è l’obiettivo più importante. Ma questo è, in fondo, un pregiudizio ideologico, e il pragmatista replica che non vi sono motivi cogenti per pensare che l’eguaglianza assoluta sia meno importante del vantaggio generale. Sempre collocandoci in un’ottica pragmatica, pertanto, è ragionevole concludere che la nostra concezione della giustizia non può limitarsi a tener conto della sola equità.

Ecco perché, a causa della tensione tra le due nozioni di giustizia summenzionate, e del conseguente conflitto fra libertà da un lato ed eguaglianza dall’altro, risulta così difficile conseguire la Giustizia (con l’iniziale maiuscola). La sua realizzazione, infatti, richiede una fusione indolore dell’interesse generale con l’equità. Si noti, inoltre, che quando uno dei due concetti pone in ombra l’altro si hanno risultati spiacevoli.

Ancora una volta è opportuno rammentare che i problemi della giustizia distributiva sono veramente drammatici solo in un’economia di scarsità. Il problema della “distribuzione giusta” non può essere impostato in maniera astratta e idealizzata, poiché il contesto in cui si opera – scarsità, sufficienza, abbondanza o sovrabbondanza di beni – è destinato a influenzare in maniera decisiva le soluzioni di volta in volta adottate. Se si privilegiano criteri pragmatici, l’attenzione dei teorici della giustizia dovrebbe quindi spostarsi dai problemi della distribuzione a quelli della produzione dei beni.

Il succo del discorso è allora il seguente. “Libertà”, “eguaglianza” e “giustizia” non vanno considerate idee a se stanti, come le forme platoniche che se ne stanno in un mondo diverso da quello reale. Sono invece concetti, che gli esseri umani non trovano già pronti, ma elaborano essi stessi nel corso dell’evoluzione storica e sociale. Ne è riprova il fatto che nella filosofia antica una nozione di “libertà” come quella propugnata dal liberalismo moderno e contemporaneo non si trova.

Se è così, non esiste tra essi un conflitto insanabile, come quello tra idee platoniche. Poiché si tratta di concetti sempre incarnati storicamente, sarà possibile, con le dovute attenzioni, giungere a una loro armonizzazione. Sempre tenendo conto, però, del fatto che in questo mondo la perfezione non esiste, e che la vita quotidiana si basa su una serie, praticamente infinita, di aggiustamenti e compromessi.

Michele Marsonet