
Parliamo pure di Garibaldi ma per parlare del futuro dell’Italia

27 Luglio 2007
Il recente
dibattito (chiamiamolo così) sul generale Giuseppe Garibaldi, e la difesa del
Risorgimento ribadita su queste pagine da Dino Cofrancesco (“Per una
difesa liberale del Risorgimento,” L’Occidentale, 15 luglio 2007),
che vi vede “l’incubatrice del liberalismo italiano” e il mattone
fondamentale di “una nuova, più avanzata, compagine statuale”, ha il
merito di riproporre, indirettamente, la questione della devoluzione. Si tratta
di un dibattito che ha avuto i suoi alti e bassi durante i due governi di
centro-destra, con la Lega che tirava da una parte e Alleanza Nazionale
dall’altra, ma che ora il governo di centro-sinistra ha messo definitivamente a
tacere, dimostrando una volta di più che il suo principale obbiettivo è il
mantenimento dello status quo a qualunque costo.
Come ricorda
Cofrancesco, anche durante il Risorgimento i padri della patria del blocco
liberaldemocratico si divisero tra coloro che auspicavano un nuovo stato
federale e coloro che, poi vincitori, volevano il nuovo paese “uno e
indivisibile”. Oggi, più che una questione di opportunità politica o anche
soltanto amministrativa (si veda il moltiplicarsi di referendum comunali per il
passaggio ad altra regione), lo scontro è tornato a essere puramente di
principio, nella peggiore accezione del termine, con accenti patriottardi e
nazionalistici da una parte, e (meno frequentemente) con sollecitazioni di tipo
etnicistico, a volte con derive razziste, dall’altra.
Sgombriamo
subito il campo dalla santificazione dello stato nazionale, quasi che l’unità
del nostro stato, nei suoi attuali confini, sia di per sé un valore morale
positivo e assoluto. A questa unità l’Italia sarebbe giunta lungo un percorso
durato secoli e “completato” con il Risorgimento e la Prima Guerra
Mondiale, quasi che il traguardo di questo percorso fosse un
“destino” ineluttabile che non ammetteva alternative. In realtà,
nessuna persona di buon senso accetta più l’idea ottocentesca che un singolo
paese consista di una sola nazione unita da sangue, lingua e religione (o
ideali etici come si direbbe oggi) in un determinato luogo geografico. Basta
guardare alla Svizzera, alla Germania, al Canada e all’Unione Sovietica, o
anche al Kosovo e a all’Israele di questi giorni, per capire come, nel corso
dei secoli, i confini dei paesi si siano fatti e disfatti, siano mutati e
mutino continuamente.
Per quanto
riguarda l’Italia, per quale motivo, se non la casualità storica, la nostra
“unità” includerebbe altoatesini e valdostani, siciliani e sardi, ma
escluderebbe (come fa) maltesi, corsi, istriani, savoiardi, sanmarinesi,
monegaschi e ticinesi? Perché dunque continuare a sbandierare la sacralità di inesistenti
patrie e immutabili confini, una sacralità che credevamo morta e sepolta con la
fine del fascismo, semplicemente per negare – anche soltanto il linea di
principio — non soltanto l’ipotesi teorica del ritorno all’indipendenza di
alcune sue parti, ma addirittura un processo di evoluzione che sposti alcuni
elementi della funzione politico-amministrativa, non necessariamente di poco
peso, dal centro alle periferie? Il problema della devoluzione, e anche quello
dell’eventuale distacco di una parte dal tutto, deve dunque essere posto in
termini non ideologici, ma pratici. Valutando i potenziali pro e contro,
bisogna chiedersi se valga la pena di mettersi su quella strada, certamente
irta di ostacoli. E soprattutto come fare perché, eventualmente, si arrivi
all’estrema conseguenza del distacco in modo democratico e, soprattutto,
pacifico.
Al di fuori del mondo occidentale, i conflitti etnici e religiosi, con la
violenza e il fanatismo che questi comportano, sembrano avere per il momento il
sopravvento su qualsiasi possibilità di un pacata valutazione delle alternative
che avvenga in ambito democratico e di reciproco rispetto (vedi Timor, Sri
Lanka e Thailandia, ma anche Serbia, per esempio). Nel mondo occidentale, però,
la lunga abitudine al parlamentarismo democratico dovrebbe rendere possibile
una tale discussione. È stato così nel Regno Unito, con le recenti riforme
amministrative che hanno garantito un certo grado di devoluzione da Londra
verso la Scozia e l’Irlanda del Nord (“unificati” a forza molti
secoli addietro). Ed è così in Canada, un paese nel quale da oltre duecento
anni convivono due grandi maggioranze circondate da minoranze etniche e
politiche di tutti i generi in uno stato di sostanziale tranquillità. In
quest’ultimo paese il 20 agosto 1998 la Corte Suprema federale, di fronte alle
aspirazioni indipendentiste della provincia del Québec, ha dichiarato
formalmente legittima l’eventuale separazione di una provincia dal resto del
paese, purché tale scelta avvenga democraticamente e fatti salvi certi principi
di reciprocità. Sarà un caso, ma da allora il movimento separatista quebecchese
ha avuto un tracollo politico, mentre la provincia del Québec ha raggiunto un
grado altissimo di autonomia politica e amministrativa e a grande maggioranza ritiene
di non aver più alcun bisogno di indipendenza. Che in
Italia si tiri in ballo l’immutabilità dei sacri confini anche soltanto quando
Carema vorrebbe lasciare il Piemonte e unirsi alla Valle d’Aosta, o Cortina
abbandonare il Veneto per il Trentino, per non parlare delle accuse di
disfattismo razzista periodicamente rivolte alla Lega, che è stato il primo
partito in Italia a sollevare la questione del decentramento e della
devoluzione, non è comprensibile se non all’interno di un disegno politico di mantenimento
dello status quo a qualsiasi costo.
C’è poi un
secondo elemento che viene tirato in ballo ogniqualvolta si accenni al tema
della devoluzione. Quello della maggiore “eticità” del grande stato
nazionale rispetto a quel ripiegamento sulle “piccole patrie” che
sarebbe, secondo i suoi detrattori, la prima conseguenza della devoluzione.
Insomma, mentre il grande stato nazionale sarebbe basato sugli ideali di
libertà, uguaglianza e fratellanza (dove oggi “fratellanza” è
diventato “solidarietà”), le “piccole patrie”
rappresenterebbero il trionfo dell’interesse individuale e del contratto
privatistico utilizzati per il perseguimento di fini specifici o temporalmente
definiti.
Ma, da una
parte, come dimenticare che di stati “etici”, cioè i cui governanti si
prefiggevano uno scopo finale e ideale e lo perseguivano con violenza
“giusta” e “liberatrice”, sono piene le peggiori pagine
della storia del mondo, comprese quelle dell’Occidente — dalle guerre di religione alle guerre
sante dell’Islam, dalla reconquista spagnola alla Rivoluzione Francese,
dall’espansione sovietica alla fascismo nostrano, dal nazismo tedesco alle
rigenerazioni cambogiane. Francamente, di tutto ciò, e dei milioni di morti che
gli ideali degli “stati etici” hanno provocato in nome del “popolo”,
avremmo tutti fatto volentieri a meno.
E, dall’altra,
perché ridurre a semplice egoismo da baruffa di condominio un sistema che si
basi sull’idea che le singole persone o le “comunità locali”possano
mettersi d’accordo, senza pestare l’uno i piedi dell’altro, sotto la garanzia
dello stato di diritto? Vorrei ricordare che, scendendo dalle pericolose nuvole
utopistiche degli ideali etici a quelli di un ben più prosaico miglioramento
della qualità della vita per il maggior numero di persone, sono proprio quei
paesi che hanno largamente adottato questa seconda filosofia del patto tra
individui (Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada, Australia, Svizzera,
Scandinavia) sono quelli nei quali il
resto del mondo emigra o emigrerebbe molto volentieri perché è lì che è più
alta la qualità della vita. Per giunta, è anche falso affermare che tale
filosofia sia contraria al principio di solidarietà. In tutti quei paesi la
cultura dell’accoglienza è ben più avanzata che nel resto del mondo, e proprio
il Canada, il paese con il più alto grado di decentramento amministrativo e con
il 20 per cento dei suoi cittadini nato “all’estero”, è anche il
paese nel quale la qualità della vita è, da anni, la più elevata al mondo.
Insomma,
evitiamo di prendere tanto il povero Garibaldi quanto il Risorgimento a simbolo
di tutti i mali dell’Italia di oggi e
guardiamoci dall’idealizzare il piccolo mondo antico degli stati
preunitari. Ma per favore basta parlare di patrie e di sacri confini, e torniamo
a discutere, questa volta seriamente e pacatamente, di decentramento, di
devoluzione e, perché no, anche di indipendenza, magari per dire che non siamo
d’accordo, che il saldo non è attivo, e che il gioco non vale la candela.