Partitocrazia no, democrazia si: riflessioni in vista del referendum

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Partitocrazia no, democrazia si: riflessioni in vista del referendum

Partitocrazia no, democrazia si: riflessioni in vista del referendum

12 Settembre 2020

«La democrazia non si può regalare come una stecca di cioccolata. La democrazia bisogna conquistarsela. Per conquistarsela bisogna volerla. Per volerla bisogna sapere cos’è»: così ha scritto Oriana Fallaci nella sua celebre “intervista con se stessa” nel lontano 2004.

Prima di pontificare sulla democrazia, quindi, si dovrebbe – come su ogni altra cosa, del resto – comprendere cosa essa sia.

La questione è ovviamente troppo complessa e profonda per essere sintetizzata in così breve spazio, ma si può accettare la definizione che di essa dava Norberto Bobbio, cioè un sistema di convivenza di diversi che, oltre quello morale, consente ai diversi di vivere senza violenza e di trasmettere il potere ultimo, che è quello di prendere le decisioni collettive vincolanti, pacificamente.

Ciò premesso, occorre anche precisare che la democrazia è un concetto tanto antico quanto quello della stessa politica e dello stesso diritto, sebbene nell’accezione più recente – sostanzialmente post-illuministica – essa sia da intendere come democrazia rappresentativa, in opposizione alla democrazia antica che per lo più era concepita come democrazia diretta.

Proprio il fatto di necessitare della mediazione dei rappresentanti – sia in senso collettivo tramite i partiti, sia in senso individuale tramite i singoli componenti del Parlamento che dei partiti fanno parte – può costituire il problema, tramite, per esempio, la maggiore diluizione della volontà popolare, o a causa della moltiplicazione dei partiti, o tramite l’irrigidimento dell’azione politica individuale del singolo rappresentante da parte del partito di appartenenza.

In tutti questi casi ci si trova in presenza di una “patologia” del sistema politico democratico, nota con il nome di partitocrazia, cioè quella degenerazione della politica democratica contro cui più volte aveva tuonato Luigi Sturzo il quale, infatti, riteneva che «fra partiti e partitocrazia corre la stessa differenza che fra Parlamento e parlamentarismo, fra democrazia e democraticismo, cioè fra struttura sana e struttura ammalata; fra andamento esatto e andamento disordinato; fra funzionamento normale e disfunzione».

Così si crea la partitocrazia contro la quale si deve opporre valida resistenza fin dall’inizio, per non far decadere il Parlamento e annullarne la funzione.

La partitocrazia è, in sostanza, un vero e proprio abuso di potere dei partiti nei confronti dei propri stessi militanti ed esponenti e, soprattutto, nei confronti dell’unico vero organo rappresentativo, cioè, per l’appunto il Parlamento.

La partitocrazia esprime il superamento dei limiti imposti ai partiti e alle direzioni degli stessi dalla medesima logica della dialettica democratica e dall’assetto costituzionale italiano, così che, riteneva giustamente il sacerdote siciliano, occorre non soltanto porre rimedio a simili derive, ma per fare ciò bisogna ricordare che «l’autolimitazione è la caratteristica più elevata di coloro che sentono la libertà e la praticano, perché l’essenza della libertà consiste nel rispetto della libertà altrui e nella possibilità di tutela della propria libertà. Il contrario della vita pubblica si chiama, con parola coniata da poco: “partitocrazia”».

L’esistenza della patologia, tuttavia, non può far perdere speranza nei confronti del “malato”, cioè il sistema democratico in genere e quello italiano in particolare.

La tanto virulenta, quanto ideologica ondata anti-parlamentarista che si è diffusa in Italia con il susseguirsi di tre eventi successivi e geneticamente tra loro collegati, cioè tangentopoli, la diffusione del pensiero giustizialista quasi ad ogni livello della società e della cultura – perfino all’interno di quegli ambiti che per loro natura avrebbero dovuto essere immuni da questo pernicioso contagio, come per l’appunto quello dei giuristi – e la nascita e la legittimazione elettorale del Movimento 5 stelle, esprime proprio la mancanza di fiducia nel sistema democratico – imperfetto per definizione – in vista di un’utopistica – e come tale tendenzialmente totalitaria – visione del mondo, della società, dello Stato, dell’Italia.

L’idea – un po’ ingenua e francamente semplicistica – che sia sufficiente ridurre il numero dei parlamentari per incrementare la qualità dell’azione del Parlamento, per quanto talvolta nobilmente giustificata da un generico e spesso confuso richiamo al pensiero di Jean-Jacques Rousseau da parte del partito grillino e il più delle volte con l’utilitaristica e falsa convinzione di un presunto risparmio di spesa pubblica, è equivalente all’idea secondo la quale allorquando il malato non sia guaribile debba essere abbandonato al proprio destino o magari soppresso.

Ridurre il numero dei parlamentari, piaccia o meno, comporta una gravissima menomazione della rappresentatività e quindi una inevitabile compressione della democraticità del sistema politico italiano, non soltanto perché nel caso specifico di questa riforma vi sarebbero intere comunità e territori praticamente non rappresentati, ma soprattutto perché proprio in un Parlamento come quello italiano fortemente afflitto dalla patologia della partitocrazia non si può concedere il privilegio ai partiti di rafforzare il loro potere decisionale mediante una siffatta tipologia di riduzione senza una regolamentazione ulteriore sulla democraticità interna degli stessi partiti.

La cura per il male della partitocrazia non è, quindi, la riduzione della democrazia.

Votare “no” al prossimo referendum, dunque, non significa aiutare la “casta” a conservare i propri privilegi, ma significa evitare, a causa di una riforma pensata male ed attuata peggio a causa della volgare e grossolana ideologia politica e soprattutto giuridica del movimento grillino, che la “casta” irrigidisca e monopolizzi ulteriormente il proprio potere esercitabile su un numero minore di rappresentanti popolari.

Soltanto difendendo le malfunzionanti istituzioni democratiche – invece di demolirle o destrutturarle – si possono avere speranze concrete di migliorarne l’efficienza e il funzionamento.