Passata la tempesta Russia e Stati Uniti fanno prove di distensione

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Passata la tempesta Russia e Stati Uniti fanno prove di distensione

07 Febbraio 2009

Il dibattito sulle relazioni tra Mosca e Washington agli albori della presidenza Obama (argomento del quale si è fatto interprete sulle pagine de “L’Occidentale” Ronald D. Asmus lo scorso 5 gennaio) è piuttosto sentito anche in Russia. Dimitri Trenin, uno dei migliori cervelli del paese, ha tracciato le linee di un rinnovato e quanto mai auspicato pensiero strategico americano sulla Russia. Dopo una fase delle relazioni tra le due potenze priva di chiare regole del gioco e con il vecchio antagonista non sempre considerato dagli USA come priorità politica, sembrerebbe che già dalla crisi nel Caucaso lo stato delle relazioni bilaterali abbia ritrovato centralità nell’agenda americana. A parere di Trenin, però, il contesto è completamente diverso da quello della guerra fredda e richiede un nuovo orientamento verso l’efficacia e non verso l’ideologia.

Innanzitutto, c’è da chiedersi dinanzi a “quale Russia” si trovi oggi la presidenza americana e quale posto potrebbe occupare tra le priorità dichiarate della politica estera Obama-Clinton.

Nell’agosto scorso, mentre la campagna elettorale americana era nel suo pieno svolgimento, giunse a maturazione il lungo processo attuato da Mosca per creare le condizioni di un conflitto solo apparentemente regionale, ma in realtà dalla più ampia risonanza. Al di là delle considerazioni strettamente legate alla dinamica della crisi caucasica, da quel contesto pareva emergere il disperato tentativo di una potenza, con mai sopite aspirazioni imperiali, di affermare con decisione prerogative imprescindibili in uno spazio considerato ancora di propria pertinenza. E ciò a dispetto di quasi vent’anni di indipendenza della Georgia e del suo palese interesse a partecipare al legame transatlantico. Messa alle corde da una NATO in potenziale espansione e da una Georgia che chiedeva di diventarne membro, la Russia ha reagito con eccesso, da un lato rivendicando il ruolo di arbitro che “le spetta” per dimostrare di essere ancora determinante per la sicurezza e la stabilità di alcune aree del pianeta; dall’altro esasperando la sua tipica percezione di isolamento e accerchiamento come già troppo di frequente negli ultimi anni.

Nei mesi successivi, con l’elezione di Obama, qualcosa è cambiato e i toni del confronto aperto sono gradualmente divenuti più pacati e, per certi versi, “sorprendenti”, in seguito all’insediamento del nuovo presidente americano. Infatti, nel corso di una visita in Uzbekistan, il presidente russo Medvedev si è dichiarato pronto a cooperare con la NATO nel sostenere gli sforzi internazionali contro il terrorismo e contro il traffico di stupefacenti provenienti dall’Afghanistan. Inoltre, è arrivata la rinuncia al dispiegamento dei missili Iskander a Kaliningrad, annunciato a suo tempo in risposta al progetto di difesa antimissile della presidenza Bush: poiché al momento il presidente Obama non mostra interesse a raccogliere l’eredità del suo predecessore (dopo aver trattato con cautela l’argomento per tutta la campagna elettorale, ha ora dichiarato di voler “verificare l’utilità” del progetto), la Russia non ha più ragione di affrettare l’installazione dei missili. Il segretario di Stato Clinton ha accolto la notizia, definendola “un gesto molto positivo”.

Ennesimo miracolo dello straordinario e contagioso ottimismo sprigionato dall’elezione del 44° presidente americano? No: oculata scelta pragmatica dettata dai tempi e dalla reciproca convenienza. Con l’avvicendamento alla Casa Bianca, si è chiuso un teso capitolo delle relazioni russo-americane, in gran parte inficiate dalla campagna militare in Iraq (mai accettata dalla Russia) e dal paventato allargamento della NATO ad est. In estrema sintesi, si potrebbe dire che, sfidata nel prestigio su uno scacchiere decisivo da un lato e “minacciata” ai propri confini occidentali da un altro, la Russia degli ultimi anni non ha fatto altro che rinchiudersi in se stessa, non perdendo occasione per dimostrare tutta la propria rilevanza politica, sfruttando la leva energetica, rinsaldando legami tradizionali in Asia (attraverso un forte attivismo nel quadro della Shangai Cooperation Organization e sostenendo l’Iran nelle sue ambizioni nucleari), stringendone di nuovi con discutibili leader politici latino-americani.

L’arrivo di un presidente come Obama, portatore di un’agenda “meno unilateralista” di quella di Bush, ha creato le condizioni per un clima nelle relazioni con gli Stati Uniti capace di produrre risultati reciprocamente vantaggiosi. Entrambi i paesi sono alle prese con i difficili esiti della grave crisi economica globale, che difficilmente consentirà loro di poter sostenere spese impegnative e non strettamente necessarie, quali, ad esempio, quelle di nuove installazioni missilistiche. Alla comunanza di talune contingenti difficoltà fa da contraltare un’identità di interessi nei riguardi dell’Iran e nella gestione della crisi afgana, il che crea le condizioni minime per un rinnovato approccio cooperativo nelle relazioni bilaterali. Nel primo caso la Russia potrebbe spendere i propri buoni uffici sulla questione nucleare, riuscendo così sia a contenere la crescente potenza regionale dell’Iran sia a sostenere in buona misura la causa americana. Nel secondo caso, essa riuscirebbe a vedersi riconoscere un ruolo prestigioso nel teatro afgano, determinante per la sicurezza dell’Asia Centrale (sulla quale si stanno concentrando sempre più i suoi interessi, soprattutto energetici), alleviando, in prospettiva, l’onere solitario del fronte occidentale. Infatti, benché sia ancora in via di definizione, la conferenza sull’Afghanistan promossa dalla Russia in ambito SCO (in programma a Mosca in primavera) potrebbe rappresentare un’utile iniziativa regionale di sostegno alla stabilizzazione dell’area, con punti di convergenza e cooperazione anche con la NATO. Ciò potrebbe produrre sinergie con un’altra fruttuosa, benché settoriale, iniziativa di cooperazione in favore dell’Afghanistan realizzata su input del Consiglio NATO-Russia.

In conclusione, Russia e Stati Uniti sembrano riconoscersi via via come potenziali partner “utili” per il conseguimento di obiettivi comuni, ricalcando in parte quanto avvenne con la condivisione della campagna globale antiterrorismo iniziata nel 2001. Ora, però, un rinnovato approccio nelle relazioni bilaterali con gli Stati Uniti non rappresenta di per sé il mero affrancamento della Russia dalla abusata condizione di paese “vittima” del doppio complesso dell’isolamento e dell’accerchiamento. Piuttosto, sembra farsi strada la consapevolezza che non è più tempo di parlare di una “nuova guerra fredda” (come, invece, avveniva fino a non molto tempo fa…) e che bisogna cercare nuove e più efficaci strategie nelle relazioni tra Stati Uniti e Russia. Ciò non tanto per i segnali di apertura annunciati dalla neo-insediata presidenza americana, ma soprattutto perché il periodo storico del confronto a tutto campo si è concluso ed uno dei due attori è venuto meno.

Sulla scena, al suo posto, ne è comparso un altro, che va compreso per quello che è e trattato per quello che sente di essere, non per arrendevolezza della controparte occidentale, ma per puro pragmatismo dettato dalla comune convenienza a cooperare su specifiche questioni di interesse. Anche se molte delle priorità della presidenza di Obama non contemplano direttamente la Russia, tuttavia è palese che senza considerarne prerogative e aspettative la soluzione di certi nodi appare senz’altro più difficoltosa. E restare vincolati a stereotipi obsoleti non giova a chi è chiamato ad agire in un contesto globale in evoluzione continua quale quello contemporaneo. Né può produrre risultato un approccio nel quale “l’Occidente” pretende di specchiarsi nella Russia e di trovare quel che più gli piace di se stesso.