Paul Morand mise il piacere davanti a tutto per godersi anche la morte
05 Giugno 2009
Era una persona, a suo modo singolare. Eppure, era anche un cumulo di tratti antipatici o quantomeno ordinari. Capitolo donne, ad esempio. “Sua moglie, la principessa Soutzo, era molto ricca…”, ricorda il figlioccio Gabriel Jardin, in appendice al volumetto selleriano, “L’arte di morire” (pagine 92, euro 8,00) di Paul Morand, uscito senza particolare eco l’anno scorso e amorevolmente curato dal francesista Giuseppe Scaraffia.
“Lei”, prosegue l’erede dello scrittore scomparso nel 1976, “aveva nove anni più di lui. Era una donna straordinaria, immensamente colta, poliglotta”. Eppure, il romanziere non aveva riguardi nel tradirla: “…lui aveva molte relazioni ostentate con donne sovente molto note. Ma le voleva bene lo stesso. Lui viaggiava molto e a lei non piaceva muoversi. Lei era il suo punto fisso. Tornava sempre da lei e l’amava in un modo particolare, preso in giro e criticato da tutta Parigi. Ma era un grande amore, un patto che funzionava”.
“Straordinaria” la signora, ma anche piuttosto invasiva in special modo riguardo al pezzo più controverso (il suo destrismo quasi ossessivo, il coinvolgimento, dopo l’invasione tedesca della Francia, con l’amministrazione di Vichy) della biografia pubblica dell’autore dell’“Uomo che ha fretta”.
La parola ancora a Jardin: “Morand non aveva una visione politica. Diceva molte sciocchezze… Si sentiva che la politica contemporanea gli era estranea. In realtà le idee che gli anno rimproverato erano quella della moglie, non le sue. La moglie era germanofila… aveva una grande paura del comunismo. Morand lasciava troppo alla moglie il lato politico della vita e questo gli ha giocato dei brutti scherzi perché la principessa era molto imprudente.
Si diceva che durante l’occupazione lei cenasse con degli ufficiali tedeschi, cosa che ha molto danneggiato Morand”. L’aver accettato gli incarichi di ambasciatore a Bucarest e a Berna poi ha fatto il resto. “Glielo hanno rimproverato in molti”, annota il figlioccio, “ha avuto noie dopo la guerra. Il comitato degli scrittori, che era molto orientato politicamente e ha epurato molte persone, gliel’ha fatta pagare”.
Anche le bordate antisemite presenti nel libro sul cinema, “France la douce”, sarebbero farina della consorte. Intrisa di “un antisemitismo dichiarato”, in realtà di suo non ostile agli ebrei ma semmai incapace di “criticare le posizioni della moglie”.
In generale, l’uomo e il personaggio, un autentico involucro di “grandi contrasti: poteva essere un dandy assoluto” eppoi “a casa, per lavorare” conciarsi “come un barbone con abiti logori e vecchi pantaloni di tela”. Apparteneva al genere, abbastanza diffuso, di maschi che “amano le belle macchine e le belle donne”. Peraltro reggeva “bene la solitudine. Viaggiava quasi sempre da solo perché sapeva di poter lavorare meglio così”. Aveva i gusti propri dell’eclettico ed era attratto da “tutto quel che era orientale, la Cina lo affascinava. Nell’arte occidentale prediligeva il barocco. Era pronto ad andare a Roma da un giorno all’altro per immergersi in quell’atmosfera”.
“L’arte di morire” è davvero un curioso testo. Un viaggio ironico fra i tanti modi di fronteggiare, con dignità e avvedutezza, il grande passo. Lo spirito è quindi debitamente leggero, quasi scanzonato. Il tratto dominante, quello di non essere colto in fallo neppure davanti all’irrituale e definitivo momento: “Ho fatto passare il piacere davanti a tutto. Vorrei che anche la morte fosse un piacere”, anche perché “tutto si impara”.