Paura e follia nella strage americana. E’ vietato arrendersi a 23 anni

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Paura e follia nella strage americana. E’ vietato arrendersi a 23 anni

24 Aprile 2007

Una settimana dopo la strage al Virginia Tech Institute negli Stati Uniti si discute sulla facilità con cui è possibile acquistare armi nel Paese, un dibattito che si riapre ogni volta che avvengono episodi del genere. Come prevenire le menti disturbate dal mettere in atto le loro più orribili fantasie è dunque all’ordine del giorno fra capi di polizia, responsabili della sicurezza di aziende, università e autorità. Persino il presidente Gorge W. Bush, ha dato ordine di rivedere il sistema scolastico nazionale per evitare massacri come quello del college di Blacksburg in Virginia.

Gli esperti – criminologi, pisichiatri, psicologi, ecc. – puntano l’indice su quelle pistole, quelle armi troppo vicine a un giovane con problemi psichici acclarati. Tutti concordano che l’atto di prevenzione più efficace sia individuare i segnali d’allarme lanciati dai soggetti a rischio. Negli Usa, infatti, gli episodi di violenza aumentano quando le armi da fuoco sono accessibili facilmente e la sparatoria al campus è solo l’ultimo drammatico episodio di violenza a scuola. Nella sua crudezza, la nuova tragedia ha aumentato la paura di atti di emulazione. Televisione e giornali negli ultimi giorni ci hanno restituito i volti dei feriti, le urla di terrore degli studenti disperati, inerti come bambole; le immagini atroci di una delle peggiori barbarie della storia americana – con i suoi 33 morti – legittimano ogni possibile pensiero. Tra le ipotesi fatte (questa, più che altro dai media), è stato indicato il videogame Counter Strike come “ispiratore” dell’uccisione. Si fanno lungometraggi sulle ultime ore di vita dell’assassino, si raccolgono informazioni, materiale di studio a quanti sono chiamati a porre rimedio a quella che è ormai una piaga sociale non solo degli Stati Uniti ma di tutto il mondo avanzato.   

Si teme insomma una deriva violenta, della quale il massacro nel college del Virginia Tech è un’avvisaglia inedita e per questo inquietante. Si ha la consapevolezza di un pericolo da non sottovalutare. Cho Seung-hui, il giovane 23enne sud-coreano, l’autore della strage che ha sconvolto il mondo ha scaricato e ricaricato metodicamente le pistole alternando le raffiche a un gelido silenzio, colpendo ogni vittima almeno tre volte, lungo le scale e in quattro classi. Cosa abbia innescato la furia omicida del giovane non è ancora chiaro. Potrebbe essere stato lo scontro con una ragazza che l’aveva respinto. Eppure solo la gelosia non può provocare simili comportamenti autolesionisti, non basta da sola a giustificare la carneficina dell’università americana. La crudeltà del gesto va oltre una soglia definibile con categorie della morale o del diritto penale. L’ha fatto in modo drastico: nel raptus omicida, disperazione, distruzione e violenza testimoniano un odio che è cresciuto in un ragazzo che non è stato ascoltato. Ogni atto, ogni azione efferata sembra il sintomo di un disagio generazionale, psichico, che porta a pensare all’inutilità della vita e quindi a voler uccidere se stessi e gli altri. Qui, il vuoto esistenziale che ha armato la mano supera il sadismo e la premeditazione, per approdare oltre la soglia dell’assurdo, della negazione di ogni valore umano. Non ci sono ingiustizie e discriminazioni che bastino a spiegare e a giustificare. Né il degrado delle città con la loro miscela di ricchezza e povertà, di successo ed emarginazione; né la noia e la solitudine dei giovani sfibrati da una modernità malata.

Ne L’ipnosi della violenza Franco Ferrarotti, sociologo italiano, scriveva che “il crimine non è da ascriversi ai soliti balordi o ai disgraziati momentaneamente emersi dalla miseria e dediti al delitto quasi a titolo di compensazione contro una società che li emarginava. Ma molti delitti sono, invece, dovuti a giovani di famiglie-bene, figli del privilegio sociale e culturale, mossi non da pulsioni irrazionali ma semplicemente dalla noia del benessere”. Montesquieu, nella sua opera Lo spirito delle leggi, attribuiva decisiva importanza al clima con riguardo ai comportamenti umani. Il sociologo francese Emile Durkheim, ne Le suicide, le chiamava “correnti suicidogene”, osservando che i suicidi risultavano più numerosi nei mesi caldi. Io non credo né al determinismo climatologico né a quello biologico. Né la disponibilità delle armi può spiegare il fenomeno; non credo affatto ci sia un rapporto univoco tra l’arma e l’uomo, perché sarebbe come attribuire alle cose il potere di fare male e non allo sparatore. Il crimine, la violenza omicida non può appellarsi ad alcuna attenuante, anche se è spesso scaturita da famiglie perfettamente normali, se non benestanti. Ma, l’impressione è che la devianza ha purtroppo conquistato troppi terreni sociali per potersi identificare con uno solo. Il vero timore è la varietà dei “mostri” e a volte l’inesistenza del movente non sono più spiegabili con le categorie tradizionali: ci sono “mostri” ricchi e poveri, scolarizzati ed emarginati, predestinati e improbabili, visibili e invisibili. Il rischio della devianza è ormai l’essenza stessa della contemporaneità.

L’autore del massacro al politecnico di Blacksburg, pare di capire, era un giovane di buona famiglia, figlio di immigrati asiatici e residenti negli Usa dal ’92, in procinto di laurearsi in inglese. Sembrava un giovane come tanti, con un’adoloscenza apparentemente serena. Sta di fatto che aveva segnalato in modi diversi il suo disagio: dando fuoco alla stanza di un dormitorio e minacciando un attentato in due lettere anonime. Non bastasse, con una sentenza del 2005 un giudice aveva definito Cho Seung-hui “un pericolo per se stesso e per altri” e denunciato i suoi “disturbi mentali”. “Un depresso e un disadattato che prendeva forti quantità di farmaci, e i cui scritti, racconti e testi teatrali”, ricorda la sua docente Lucinda Ray, “erano così inquietanti da suggerire a volte il ricorso allo psichiatra”. Nascondeva insomma dentro di sé demoni quasi incontrollabili e, soprattutto, l’eccidio era stato pianificato per almeno un mese, dal 13 marzo, quando ha acquistato (silenziosamente) la prima rivoltella.  

Se il problema è come difendersi, la risposta non può essere solo sul terreno del diritto penale. Non è questione di condanne di maggiore o minore rilevanza penale dei fatti in oggetto. Di più: è evidente che l’analisi criminologica in senso stretto non è sufficiente. Di fronte al dilagare di episodi simili occorre prendere posizione: calarci in quel poco di umanità che precede d’un istante la strage per scongiurarla. Inutile chiamare in causa una generica “società”. Le famiglie, gli educatori e i politici, piuttosto, devono assolvere alle loro responsabilità specifiche, a doveri istituzionali e personali non più eludibili. Del resto, in tale circostanza, è indubbia la svista dei presidi familiari e sociali; una scuola, la famiglia e un tutto intorno che non anno funzionato. Di certo la violenza non cade dalle nuvole. Spesso è il risultato di una carenza formativa che rimanda a tremende responsabilità culturali. Ma esiste anche una cultura che estetizza la violenza omicida e stimola gli istinti peggiori, comportamenti irrazionali, il “volere tutto, qui e adesso”. Giovani smemorati, privi di cultura e di riferimenti ideali, ne sono allo stesso tempo le vittime e gli artefici. Ridare ad essi la memoria e la strada della ragione, della responsabilità che sfida la solitudine, l’abbandono, l’angoscia, la paura, la morte e ritrova la strada, è qualcosa che fa tornare a provare fiducia e speranza nella vita: è la condizione fondamentale per farne esseri umani in senso pieno e non vuote canne, docili al capriccio d’ogni ventata emotiva. Una violenza contro la quale non c’è legge.