Pechino corre ai ripari per evitare la bancarotta

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Pechino corre ai ripari per evitare la bancarotta

18 Novembre 2008

Un enorme muffin, croccante fuori, soffice dentro: forse pure troppo. L’economia cinese sembra proprio il tipico dolcetto della colazione anglosassone davanti alla prova del “decoupling”, ovvero lo scollamento dello strapotere centrale e trainante dell’economia Usa rispetto al mercato mondiale. Un ruolo nevralgico che si pensava potesse essere assorbito in buona parte, in questi mesi di crisi, dalla Repubblica popolare cinese, la quarta potenza mondiale. E invece la crisi dei mutui ipotecari subprime, in una prima fase, e la eccessiva dipendenza di Pechino dalle esportazioni hanno dimostrato la vulnerabilità del sistema Cina, costringendo il governo di Pechino a una potente riforma finanziaria che serve a rabbonire, prima di tutto, i malumori crescenti della popolazione. 

Quattro milioni di yuan – 580 miliardi di dollari – da spalmare nei prossimi due anni. Se, da una parte, questa cifra può infondere fiducia nelle borse internazionali, dall’altro serve al regime per evitare una possibile resa dei conti interna. Il programma, in dieci punti, tocca i nervi più sensibili della società cinese: rilancio dell’edilizia e delle infrastrutture (case, grandi arterie stradali e ferroviarie) con relative ripercussioni positive sul mercato automobilistico e immobiliare (quest’ultimo segnala un meno 40 per cento nelle transazioni effettuate), e a seguire l’educazione, l’ambiente, la sanità e il welfare, con particolare attenzione per la terza età, tutto a beneficio di milioni di cinesi.

Si tornerà dunque a cementificare, ricetta vecchia, con particolare sforzo economico nelle aree del Sichuan colpite dal gravissimo terremoto dello scorso maggio. Un modo per ridare una casa dignitosa a migliaia di sfollati: i prezzi degli immobili, in Cina, sono alle stelle, e un lavoratore medio non ha la certezza di potere comprare un modesto appartamento anche dopo una vita intera di lavoro. Ci sono tanti senzatetto che sono stati sfrattati dal governo per fare spazio a nuove aree edificabili.

Il piano sarà anche l’occasione di ripianare l’insuccesso delle Olimpiadi che, calcolatrice alla mano, si sono dimostrate un investimento a perdere: la Cina ha costruito impianti e strutture ospitanti per 30 miliardi dei nostri euro (a Sydney erano stati investiti appena 1,5 miliardi di dollari), ci si aspettava 2 milioni di turisti e invece ne sono arrivati appena 400 mila con gli hotel a 4 stelle occupati solo per il 30 per cento. Il ritorno economico per i commercianti è stato scarso, i ristoratori hanno perso quasi un terzo dei loro affari e rimane il pesante interrogativo su come utilizzare in futuro le mastodontiche costruzioni realizzate per l’evento.

Sia chiaro, la liquidità delle banche cinesi rimane solida e l’economia continua a crescere del 9 per cento l’anno, ma quello che preoccupa il governo centrale sono le continue manifestazioni di protesta di tanti lavoratori che, nei diversi settori, si fanno sentire. Queste proteste minano l’apparente, ma fondamentale, armonia tra la base e le gerarchie comuniste – quella miscela ideale che sostiene da sempre il regime rosso. Così Pechino ha compreso che è tempo di mettere mani a un modello di sviluppo diverso che passa, appunto, attraverso un articolato sistema di riforme.

I malumori dei cinesi sono emersi dalle agenzie di brokeraggio dove, a ogni calo di borsino, i risparmiatori gridavano con le mani fra i capelli: "Maledetti americani!". Il malcontento si è riversato tra i tanti disoccupati (oltre 20.000) che hanno perso il lavoro e tra coloro che rischiano di tornare a casa. Un altro elemento determinante è stata la diminuzione delle esportazioni con il calo delle richieste dall’estero, solo il 9 per cento di crescita dall’inizio del 2008, il tasso più basso negli ultimi 5 anni. 

Le esportazioni sono ancora per un terzo il motore trainante del Pil nazionale. I prodotti cinesi – sempre concorrenziali grazie alle condizioni di lavoro nelle fabbriche e al mancato rispetto dei diritti basilari dei lavoratori –  iniziano a perdere ossigeno sia per la recessione globale che per la rivalutazione dello yuan: 67 mila imprese sono in bancarotta e molte compagnie straniere si ritirano dal Paese. Le "fabbriche del mondo", come vengono definite le industrie tra il delta del fiume Yangtze e quello delle Perle, sono state per decenni le fondamenta robuste sulle quali la Cina ha costruito la sua crescita e il suo benessere. Ma oggi da queste zone scappano gli investitori internazionali e chiudono anche le compagnie cinesi. Il rischio è la bancarotta e la disoccupazione.

Si contano gravi perdite nel settore edilizio e tra le piccole e medie aziende che continuano a tagliare lavoratori. La borsa di Shanghai in un anno è crollata da 6124 punti ai 2154 registrati a settembre, con una perdita di circa il 64 per cento. Il "Wall Street Journal" ha fotografato così la situazione: "Il rallentamento dell’economia cinese dimostra come la Cina debba ancora raggiungere un grado di forza e di autorità necessaria per guidare l’economia mondiale… La Cina occupa solo il centesimo posto nel mondo per reddito pro capite". Il presidente Hu Jintao è davanti a una svolta epocale dettata in primis dal contesto interno più che da quello intercontinentale. Come in una partita a scacchi bisogna bere o affogare, tentare il colpo di genio o rischiare lo scacco matto.