Pensioni: dalle prime riforme al Protocollo sul welfare

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Pensioni: dalle prime riforme al Protocollo sul welfare

20 Novembre 2007

È stato più volte rilevato
che il nostro sistema pensionistico ricevette un forte impulso riformatore sul
finire degli anni sessanta. Senza voler entrare nelle peculiari vicende
storiche che diedero vita a quella particolare fase politica della storia
italiana che va sotto il nome di centro-sinistra,
in vista del prossimo passaggio parlamentare del cosiddetto “Protocollo sul
Welfare”, è nostra intenzione ripercorrere i tratti principali di quello che, a
torto o a ragione, è stato definito uno dei risultati politici più “avanzati”
della stagione riformista dell’Italia degli anni sessanta e settanta. Ci
riferiamo alla legge n° 153 del 30 aprile 1969, nota come riforma Brodolini per la revisione
degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale.

Il disegno di legge (N. 1064)
venne presentato nella seduta del 19 febbraio 1969 alla Camera dei Deputati dal
Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, il socialista Giacomo
Brodolini, di concerto col Ministro del Bilancio e della Programmazione
economica Luigi Preti e del Ministro del Tesoro Emilio Colombo. Il disegno
venne approvato dalla Camera nella seduta del 29 marzo 1969, modificato dal
Senato il 24 aprile (disegno N. 603), trasmesso dal Presidente del Senato alla
Presidenza della Camera il 28 aprile ed approvato definitivamente il 30 dello
stesso mese.

La vicenda politico-sociale
che accompagnò la presentazione e l’approvazione della riforma vide il
movimento sindacale impegnato nello svolgere
un ruolo di primissimo piano, assumendo una posizione di rottura rispetto alle
ipotesi di riforma elaborate negli anni precedenti; è lo stesso Ministro
Brodolini, durante la seduta di presentazione alla Camera, ad affermare: “Il
provvedimento è, d’altra parte, il frutto della più ampia e feconda
collaborazione con le organizzazioni sindacali, il cui apporto di
responsabilità e di esperienza ha operato positivamente nel momento delle
valutazioni e delle scelte alle quali il Governo è pervenuto”.

In particolare, la riforma avrebbe
segnato il passaggio da un modello fondato su un trattamento di base per tutti
i cittadini anziani, con una integrazione differenziata per appartenenza
professionale e l’aggiunta di versamenti contributivi effettuati durante la
vita lavorativa, ad un modello che colloca al centro i lavoratori occupati dei
settori forti. Questi ultimi avrebbero percepito trattamenti rapportati ad un
elevata percentuale della retribuzione, calcolata sulla base dell’ultimo
periodo lavorativo, finanziati dalla solidarietà intergenerazionale, tipica dei
sistemi cosiddetti a ripartizione. In breve, è lecito pensare che, almeno nelle
intenzioni dei protagonisti dell’epoca, si trattava “di un provvedimento di
largo respiro e di notevole impegno finanziario, con obiettivi a breve e lungo
termine e che [avrebbe contribuito] ad un più celere avvicinamento di quel
traguardo della “sicurezza sociale” verso il quale erano già rivolti i
provvedimenti legislativi approvati dal Parlamento dal 1965 in poi”. Sulla stessa
linea si assestava anche il giudizio dell’Istituto Nazionale di Previdenza
Sociale, il quale considerava il provvedimento in esame il tentativo, ben
riuscito, di “recare miglioramenti e innovazioni rispondenti ad una esigenza di
giustizia verso larghe categorie di cittadini, assicura[ndo] negli organi di
gestione dell’Istituto la più ampia partecipazione e responsabilizzazione delle
rappresentanze dei lavoratori e introduce[ndo] alcuni principi che
costituiscono la premesse necessaria per la trasformazione dell’attuale ordinamento
in un progressivo ed ordinato sistema di sicurezza sociale, consono al livello
di sviluppo civile ed economico della nostra società”.

Il quadro generale della
legge di riforma pensionistica prese corpo tra l’autunno del 1968 e la
primavera del 1969, dopo un’intensa trattativa che vide coinvolti da un lato i
rappresentanti del Governo e dall’altro quelli dei lavoratori dipendenti. Gli
elementi che maggiormente qualificarono il contenuto della riforma possono
essere raggruppati in due rami principali, da un lato, abbiamo gli interventi
volti a tutelare gli interessi degli occupati nei settori forti, dall’altro,
possiamo rilevare una serie di trattamenti di solidarietà, rientranti nella
categoria degli interventi assistenziali nei confronti dei soggetti
appartenenti alle categorie più deboli.

Per quanto riguarda il primo
ramo i punti qualificanti sono i seguenti: a)
abbandono del criterio contributivo e passaggio a quello retributivo, con
riferimento al periodo finale della vita lavorativa; b) meccanismi di salvaguardia del potere d’acquisto dei trattamenti
pensionistici; c) presenza
maggioritaria dei rappresentanti dei sindacati nel Consiglio d’amministrazione
dell’INPS. In relazione agli interventi di tutela dei cittadini appartenenti ai
settori economicamente più deboli, ricordiamo che la legge previde il
consolidamento dei trattamenti minimi e istituì la cosiddetta pensione sociale per tutti i cittadini
ultrasessantacinquenni, sprovvisti di reddito. Ecco come il Balandi, da un
punto di vista politico-sindacale, valuta l’esito delle trattative tra Governo
e Sindacati: “Questo compromesso plurilaterale avrebbe segnato il sistema
pensionistico italiano negli anni successivi; il bilanciamento di interessi che
così si realizzò è tuttavia, probabilmente, all’origine dell’intreccio di veti
che da tempo blocca le ulteriori prospettive di sviluppo”.

Sulla base di quanto è stato
detto fino ad ora, possiamo tentare una breve osservazione di carattere
socio-politico. Lo svolgimento di
una politica economico-sociale il cui obiettivo fondamentale, all’indomani
della seconda guerra mondiale, era quello di dotare il nostro Paese di un
capillare sistema di previdenza e di assistenza sociale si inseriva in primo
luogo nel tentativo di far uscire il Paese dalle dure secche di una miseria tra
le più penose d’Europa. L’economista statunitense e premio Nobel nel 1986 James
Buchanan, in un’intervista rilasciata alla rivista “Ideazione” nel
1997, citando uno studio della World Bank,
afferma che nei Paesi occidentali il trasferimento al settore pubblico è stato
produttivo fino agli anni sessanta e tale fenomeno avrebbe incrementato il
tasso di crescita dell’economia. Tuttavia, a partire dalla decade successiva
l’espandersi del welfare state sarebbe
stato improduttivo, riducendo il tasso di crescita.

È triste doverlo ammettere,
ma appare piuttosto evidente dall’osservazione delle vicende politiche italiane
degli ultimi trent’anni, che l’esigenza di poter contare sulla figura del politico responsabile è stata spesso
frustrata dall’occupazione sistematica di ogni spazio civile da parte dell’abile politicante, l’indomito cacciatore
di clientes, il quale ha contribuito
in modo determinante alla degenerazione della nobile arte della politica in
male affare e, quel che è peggio, un tale sistema e chi ha contributo a produrlo
non hanno consentito il raggiungimento del primo obiettivo che uno stato
sociale moderno, liberale e rispettoso della dignità della persona umana
dovrebbe prefiggersi: il successo storico dell’autogoverno da parte dei suoi associati, rispettando i principi di
efficienza e di solidarietà.

Di questo e delle prospettive
future del sistema pensionistico italiano, in vista del difficile passaggio
parlamentare del protocollo sul welfare, si parlerà mercoledì 21 novembre, a
Roma, alle ore 19.00 presso la sala conferenze dell’Editore Rubbettino (Lungotevere
Raffaello Sanzio 9), in occasione della presentazione del “Quaderno” di Giovanni Palladino,
curato dalla Fondazione “Novae Terae”: La
vera verità sulle pensioni
. All’incontro parteciperanno oltre all’autore,
l’On. Bruno
Tabacci e il presidente della Fondazione “Novae Terrae”, l’On. Luca Volontè.

(Il presente articolo è una
sintesi del “Focus” pubblicato dal Centro Studi Tocqueville Acton, liberamente
scaricabile al seguente indirizzo:
http://www.cattolici-liberali.com/tocquevilleacton/pubblicazioni/focus/focus)