Per arrestare la speculazione bisogna ridare il giusto ruolo alla finanza
22 Gennaio 2012
Sembra ormai chiaro, se mai vi fossero stati dubbi, che le vicende europee siano intimamente legate agli umori di un mondo finanziario e bancario che non lascia più spazio ad interventi finalizzati a ridare fiato alle economie reali. Contemporaneamente, i dibattiti politici fanno fatica ad affrontare il problema delle economie occidentali per quello che realmente è, ovvero l’incapacità di competere su mercati globali fortemente collegati e interdipendenti.
Se da una parte va rimproverato alla politica di non aver agito per tempo e di essere in ritardo rispetto alla velocità di propagazione dei fenomeni speculativi, dall’altro va certamente messo sotto accusa un mondo, appunto quello della finanza, ormai incapace di svolgere il ruolo di propulsore dell’economia reale. I mercati finanziari rappresentano, infatti, quei luoghi in cui dovrebbero essere selezionate le imprese migliori, quelle con le aspettative di crescita e sviluppo più promettenti. D’altro canto, le banche, nella loro veste di erogatori del credito, dovrebbero assicurare al sistema economico un certo ammontare di liquidità e credito secondo criteri di selezione basati non tanto sulle garanzie reali, quanto piuttosto sulla bontà dei singoli progetti.
Applicando questa logica su grande scala, il fallimento di alcuni è più che compensato dalla redditività, presumibilmente al di sopra del livello medio, dei progetti “vincenti”. Ciò favorisce la crescita e la meritocrazia, attraverso un meccanismo che premia le imprese che investono nel capitale umano ed in cui la meritocrazia deve necessariamente aver luogo, pena il declassamento al rango di impresa spazzatura.
Analizzando la situazione reale, ed in particolare quella italiana, sembra di poter affermare senza presunzione, che le istituzioni finanziarie abbiano smesso di fare il loro lavoro ed abbiano invece affidato la loro capacità di profitto a movimenti che sovente non hanno legami con l’economia reale, trascinando spesso con sé anche importanti comparti industriali. In mercati fortemente interrelati ed in cui la competitività si gioca su larga scala, ciò determina una frattura profonda tra l’”elettronica” dei movimenti finanziari e le scelte di famiglie e imprese, sempre meno capaci di far fronte alle difficoltà odierne.
Ciò premesso, il problema va letto nella sua totalità e non vi è dubbio che quando si parla di scarsa competitività, disoccupazione, bassa crescita, equilibrio di bilancio e così via, vada tirata in ballo la società nel suo complesso e l’atteggiamento verso i problemi collettivi. Da questo punto di vista si ritorna comunque al punto di partenza, ovvero alla politica che, non va dimenticato, ha tutti i mezzi per ristabilire un ordine economico ormai compromesso. Le manovre possono avere una giustificazione economica, ma costituiscono pur sempre strumenti che si innestano sull’esistente e non hanno, di per sé, una forza propulsiva propria; quello che manca è un’inversione di tendenza nel modo di fare le cose e quindi la capacità di produrre scelte impopolari nei confronti di colori verso i quali la politica ha, da sempre, avuto un occhio di riguardo. Ovviamente, non ci si riferisce alla categoria dei tassinari, il cui peso specifico nell’economia italiana è limitato e la cui incidenza sul bilancio delle famiglie decisamente trascurabile. Ci si riferisce invece alle grandi aree di intervento sulle quali un governo tecnico non può fare ragionamenti di opportunità politica o di sopravvivenza temporale (vorremmo piuttosto vedere la rivolta dei professori universitari che non riescono a far emergere i loro talenti).
L’Italia deve cambiare al più presto il modo di funzionamento delle sue istituzioni, dalla giustizia al fisco, dalla ricerca alla finanza, dai trasporti all’energia solo per citare i più critici aspetti della nostra vita sociale ed economica. Le liberalizzazioni, dove effettivamente applicabili, possono costituire uno strumento di crescita, ma non necessariamente di sviluppo, solo nella misura in cui il Paese sia pronto ad accettarle e cioè solo quando la società abbia effettivamente sviluppato i geni di una società più aperta. Come alcuni “esperimenti” di economia di libero mercato insegnano, vi è il rischio che l’apertura di mercato, più che costituire occasione di crescita per l’intera collettività, possa rappresentare un’imperdibile occasione per chi vede nelle regole e nei comportamenti etici un ostacolo alla massimizzazione della propria ricchezza personale. In buona sostanza, il Governo Monti dovrebbe fare attenzione e rifuggire la convinzione, più da manuale di macroeconomia, che da statista, che ad una data azione corrisponda un certo tipo di risultato.