Per coloro che alla cultura della morte continuano ancora a preferire la vita

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Per coloro che alla cultura della morte continuano ancora a preferire la vita

07 Febbraio 2010

Non si era detto ma Juno ha una sorella. La sedicenne americana protagonista del film omonimo del 2007 era rimasta incinta “per sbaglio” e aveva scelto di far nascere il bimbo per poi darlo in adozione a una coppia in cerca di una creatura da spupazzare; è amaro registrarlo ma molti intellettuali à la page hanno visto al fondo di questa storia lineare, dettata dalle regole della natura, una sceneggiatura “politica”. E’ amaro; però al giorno d’oggi non abortire a sedici anni per qualcuno significa annegare nell’ignoranza o – se proprio la ragazza è ferma nella decisione – violentarsi pur di assecondare comandamenti fanatici.

Ormai purtroppo si è rassegnati a dire che queste piccole donne sono eroine dei nostri giorni, molto più femmine di tante quarantenni in carriera che dopo aver trovato il lavoro “quello-figo-che-appaga”, il trentunesimo uomo giusto e una casa ecosostenibile col materasso a terra da molte piotte, si ricordano di togliersi il capriccio di un bimbo, come se un bambino fosse l’alternativa animata a un bel pensile Bauhaus.

Ma se lo spessore del profilo di Juno è pellicola di celluloide, inventata come è dalla fantasia di un regista non crociato, quello della sorella è tratteggiato da un seno prosperoso e da una pancia ripiena di vita, perché lei esiste davvero e si porta dietro una storia vagamente simile a quella portata al cinema.

Le due coraggiose sono legate non da rapporto di sangue, ma dalla tempra e dal medesimo istinto di amore che pretende di non essere deturpato da sovrastrutture politiche. Juno e la sorella non condividono neanche la lingua vivendo a migliaia di chilometri di distanza: una parla inglese e maneggia suoni hollywoodiani, l’altra è figlia di Trinacria e zavorra le parole che iniziano per “r” marcando l’orgoglio della sicilianità. Sono diverse anche perché la liceale americana è il modello perfetto dell’antiabortista casuale, archetipo di laicità positiva per il suo pensare solo a chitarre e gomme da masticare; sua sorella, invece, 25enne universitaria della provincia di Agrigento, è una cattolica che non intende razzolare male rispetto a quanto predica. Vuole portare avanti la gravidanza, ma è costretta perfino a fingere di aver cancellato il bimbo per assecondare la volontà abortista del padre e dei genitori. Ce la farà Marta (nome di fantasia) anche grazie al sostegno delle suore di Niscemi (dove partorisce) a cui è stata affidata dalle consorelle del suo paese. A mamma e papà aveva detto che sarebbe andata a Palermo per motivi di studio, la menzogna più nobile che lassù abbiano mai ascoltato.

Fendono l’aria, violenti, gli strali dei professionisti dell’aborto che mettono entrambe le piccole donne sul banco degli imputati. A Juno, però, viene riservata soltanto l’accusa di “deviazionismo” essendo stata sostenuta nella sua volontà di far nascere il pargolo solo da innocua convinzione personale, non da crocifissi e preti; a Marta, al contrario, darebbero l’ergastolo per aver deciso di partorire anche “a causa” della dottrina sociale di romana Chiesa. Dal punto di vista dell’eroica femmina di Sicilia la pena non è fardello per chi la subisce, ancor più se è comminata dall’inquisizione laicista, ma è tale in quanto commiserazione per l’approccio di quanti decidono la sentenza, che friggono di rabbia per quello che è un puro atto d’amore.

Juno e Marta rappresentano i simboli del riscatto della vita in una società che ha ideologizzato perfino il parto; sono le sorelle ideali di un uomo anche lui siciliano. E’ di Catania Salvatore Crisafulli, operaio che a seguito di un incidente stradale è caduto in coma dal 2003 al 2005; Salvatore si è risvegliato in un corpo che non risponde ai suoi stimoli, e pur se paraplegico – in grado di comunicare solo con gli occhi – aveva pregato Beppino Englaro di non terminare Eluana. Qualche giorno fa però, Salvatore si è incidentalmente allineato al pensiero di Beppino, decidendo di farla finita in Belgio con un’iniezione letale. Ma a dispetto di quanto abbiano raccontato i suoi occhi, Crisafulli non è Englaro e non ha mutato radicalmente i suoi principi iniziando a dire che quella “non è vita”. Salvatore ha disperato solo perché le reti di assistenza di questo Paese, ancora di più in un angolo di Sud dove pure i quattrini  per i malati vengono mangiati dai collusi e dagli uffici stampa pletorici, non sono mancanti ma assai deficitarie. Soltanto l’assenza di affetto e di adeguata assistenza inducono a considerare “la dolce morte”; soltanto l’avere le spalle al muro, non la presa della sponsorizzazione culturale dell’eutanasia, all’olandese o alla Bonino.

Salvatore è fratello di Juno e Marta perché un attimo prima di partire, per andare a finire la sua esistenza, ha detto no dimostrando come e quante volte si possa cambiare idea sul proprio destino; è uno schiaffo in pieno viso, terapeutico, a chi vorrebbe far mettere una firma v-i-n-c-o-l-a-n-t-e ai sani chiedendo loro cosa vorrebbero fare di se stessi da malati gravi. Senza contare, tornando al caso di Eluana, l’assenza di evidenze scientifiche inequivoche sullo stato vegetativo, come accredita – ultimo in ordine di tempo – lo studio di un team di neuroscenziati belgi e britannici pubblicato sul New England Journal of Medecine. Al centro dell’indagine il caso di un 29enne belga, vittima cinque anni fa di un incidente stradale che lo ha portato in sonno: quel giovane ha dimostrato di non essere un vegetale parcheggiato su un letto, ma un uomo capace di rispondere “si” e “no” col pensiero a domande semplici. Si è evidenziato – in definitiva – che nella testa del ragazzo è presente attività cerebrale in risposta a comandi nelle stesse aree di soggetti sani.

Si combatta a difesa della vita, allora, senza complessi di inferiorità; predicando che non si può morire di eutanasia per abbandono o per presunte certezze mediche; che bisogna sostenere concretamente il diritto alla maternità; che la RU486 è banalizza l’aborto ed eleva culturalmente la pastiglia al rango di anticoncezionale a uso domiciliare; che si può combattere come Juno ma anche come Marta, sostenuti dalla ragione in ricerca, in cammino verso la fede (“intellectus quaerens fidem”) e dalla fede che chiede di penetrare sempre più intensamente la ragione (“fides quaerens intellectum”). Qualcosa di più complesso del manicheismo di Umberto Veronesi, scienziato da cui ci si attenderebbe elaborazioni più articolate dell’assunto secondo il quale “la religione impedisce di ragionare perché presuppone di credere ciecamente in qualcosa di rivelato nel passato. La scienza invece vive nel dubbio, nella ricerca della verità, nel bisogno di provare, di criticare se stessa e riprovare”. Come adorare un bisturi o un microscopio, in sostanza, messo su un altare a forma di tavolo operatorio.

Lo conferma da un’angolazione tutt’altro che clericale Mons. Luigi Negri, Vescovo di San Marino–Montefeltro che, raggiunto al telefono, sottolinea come “l’indisponibilità della vita trova rivelazione adeguata nell’evento del Cristianesimo, ma essa è conoscibile e praticabile secondo ragione rettamente intesa o – come dice Benedetto XVI – usata largamente. Una ragione – continua – non chiusa nei limiti di un razionalismo che guarda a tutto come oggetti manipolabili, compresi gli oggetti umani”.

Per il Vescovo di San Marino l’approccio di Veronesi non è neanche più “esaltazione dell’uomo ma degli strumenti, fine ultimo di una adorazione che non ha nessun fondamento razionale. Occorre sostenere la battaglia della vita – conclude – ma questi problemi vanno affrontati nello spazio ampio della ragione che incontra la fede, non sul terreno angusto di una fede che rischia di diventare fondamentalista e di una ragione concepita e vissuta razionalisticamente”.

Domenica 7 febbraio è la giornata della vita: Juno, Marta e Salvatore pranzeranno insieme con hamburger e cassate.