Altri, che hanno conosciuto e lavorato nei decenni a fianco don Gianni Baget Bozzo, hanno scritto o scriveranno di lui con più piena informazione e cognizione di causa. Ma non voglio mancare ad un atto di omaggio e di vera riconoscenza, di fronte alla sua morte.
La nostra conoscenza personale era minima. C’eravamo incontrati nel 1997, dopo l’estate, per la presentazione a Firenze di uno dei suoi libri più importanti, Il futuro del cattolicesimo. Era difficile, allora come oggi, specialmente nella Firenze cattolica, convenire con don Gianni, che quasi esordiva scrivendo: “Il male oscuro che minaccia i cattolici [dopo aver sconfitto il razionalismo, il moderno, il totalitarismo, il comunismo] sono i pensieri, apparentemente religiosi, ma di un altro spirito, che li circondano, e vogliono convincerci che vi è un solo nemico da cui la Chiesa debba difendersi: la Verità pensata, detta, conosciuta. Per questo male oscuro [la Verità sentita come “nemico” di un’umana modernità cattolica], tutti i pensieri sono componibili con il Cattolicesimo, la distinzione tra ortodossia ed eresia è peccato cristiano, da cui derivano crociate e inquisizioni. [Secondo questo male oscuro] per essere cattolici, bisogna riflettersi in pensieri non cattolici” (Futuro del cattolicesimo, pp.11-12).
Diagnosi perfetta (venata in lui di pessimismo), che coglieva una cultura diffusa, oggi ancora più che una dozzina di anni fa, fin nei quadri parrocchiali militanti e nei loro maestri italiani, cattolici e “laici”. Oggi in sede ecclesiale si è abbandonato anche l’appellativo “cattolici”; i cattolici virtuosi sono “cristiani”, le parrocchie cattoliche sono “comunità cristiane”, principi e valori sono naturalmente “evangelici”. Galleggiamo in un evangelismo postmodern, liquido, in cui “riflettersi [doverosamente e meritoriamente] in pensieri non cattolici [ma naturalmente cristiani]” è dato per scontato, come l’aria che respiriamo. Non è da stupirsi, allora, se anche in intelligenze dotate il cattolicesimo ha “la forma dell’acqua”.
Per don Gianni, “le teologie secolarizzate si limitano a difendere la Rivelazione come forma mitica, espressiva della dimensione profonda dell’uomo. Il senso, e dunque la domanda su Dio, divengono una malattia oscura, la volontà di infinito che contraddice la finitezza del mondo” (Futuro del cattolicesimo, p.193). Ma non sono capaci di designare il nichilismo (che è essenzialmente l’abolizione del sentimento di mancanza e della domanda di senso, di Dio, che quel sentimento porta con sé) col suo nome, e non aiutano il Magistero ad affrontare la sfida che dal nichilismo proviene.
Ero stato invitato a presentare il libro per “mediare” tra don Gianni e quella Firenze. Ma nessuno del mondo cattolico “criticamente” qualificato venne alla presentazione, tuttavia gremita di pubblico. Sintomatico e banale che questo accadesse; sintomatico perché banale. Il futuro del cattolicesimo era, e resta, un saggio magistrale; non intenderne la forza, la verità, era già allora suicida per la cultura cattolica che si sottraeva al confronto con Baget Bozzo come, non tanti anni prima, aveva evitato quello con Augusto Del Noce, con cui il libro bagetiano sul cattolicesimo era in originale continuità.
Devo aggiungere, e ne accennai nella presentazione, di non aver amato (né allora né nei decenni precedenti) il Baget Bozzo del decennio tra Chiesa e utopia, 1971, e Il futuro viene dal futuro, 1982. In quella stagione il suo allineamento a temi e diagnosi della “sinistra conciliare”, cui anch’io avevo appartenuto, era stato molto forte, anche se frutto di reciproci equivoci. Nel 1997, consumata nel dramma ed anche lasciata alle spalle la milizia socialista, don Gianni era così distante dalle sue tesi passate da averne perso la memoria come di cosa ancora propria. Distante dal significato che venticinque o trent’anni prima aveva avuto la sua denuncia della separazione tra la linea escatologica (pura, salvifica) e la linea sacrale nella Chiesa (quella dell’alleanza tra sacro istituzionale e potere) e simili topoi. O dall’affermazione (del 1982) che, “in Italia non si dà una realtà di Chiesa profetica, (…) la Chiesa appare sempre più come gerarchia, che (…) riduce la silenzio sia la teologia che i movimenti ecclesiali”.
Un po’ contrariato dichiarò, a chi gli osservava le differenze, la sua estraneità, ormai, a quegli anni. Non mi pare che una formula come “ribelle per vocazione”, comparsa sul Corriere della Sera, per quanto sottile (se la si sa intendere) sia adeguata. Amava considerarsi vocatus, interpellato da voci; un dono della vita soprannaturale. Ma una vocatio così non fa dei ribelli, piuttosto degli obbedienti; il “prete politico” (grossolana espressione) intendeva obbedire ad un interno, e sovrannaturale, mandato civile; l’opposto della milizia etico-politica di un cattolico (laico o ecclesiastico) secolarizzante.
Nella polemica del ‘97 contro “i professori di teologia [o i liturgisti, dirà subito dopo, che] in quanto tali non sono in grado di nutrire la vita spirituale del fedele”, vi è più che una notazione condivisibile dai “professori” stessi; vi è l’abbandono di ogni consentaneità ideologica con quella teologia che quindici anni prima aveva denunciato “condannata al silenzio” (!) dalla Chiesa gerarchica. Così come le pagine critiche del ‘97 sulla riforma liturgica (ricordo solo: “era caduto [nella riforma della messa] con la pratica del sacro il sentimento dell’adorazione, che veicolava l’amore mistico per la Presenza”) sono distantissime da Sacro e mistico dell’82. Diversamente da coetanei come dai più giovani aveva saputo e voluto cambiare disegno e criteri di diagnosi dell’attualità storica. Si era genialmente sottratto alla nostra geremiade programmatica (contro “entità inafferrabili come il consumismo, l’edonismo, la tecnologia stessa”, com’egli stesso dice) messa al posto della cultura politica, e al destino nihilistico, ancora oggi in atto, della fase “mistica” del progressimo cattolico.
Nulla perdendo (anzi) della forza progettuale, o della Speranza storica cristiana, Baget Bozzo aveva appreso dalla grandiosa reformatio di papa Wojtyła a restare fedele al proprio genio divergendo ormai sistematicamente dalle diagnosi “critiche” con cui le sue potevano essere confuse. La sua dura, costante, attenzione alle forme cangianti dell’egemonia del nihilismo non assomiglia mai, per questo, alla battaglia moralistica contro “entità inafferrabili”. “La fame nel mondo – osservava al termine di un capitoletto sull’Islam, dove troviamo in nuce le analisi che moltiplicherà in anni recenti – mobilita i cattolici (…), ma non vi è un istinto di solidarietà con i cristiani perseguitati [nel Vicino Oriente]. Solo un uomo dell’Est poteva dare, dalla sede di Pietro, un volto al sentimento di unità cattolica.
La decadenza del Cattolicesimo nei cattolici [dell’Europa occidentale] spiega il fatto che tra i cattolici l’offesa fatta ai cattolici non susciti un sentimento di identificazione. In realtà il Cattolicesimo come definizione di un’identità sembra diventare sempre più raro” (Futuro del cattolicesimo, p.202). E neppure una lettura cattolica del enjeu interculturale contemporaneo, divenuta più critica negli ultimi anni, doveva averlo tranquillizzato. Solo un uomo dell’Est; Baget Bozzo temeva il dopo Wojtyla: “La trascendenza della persona rispetto alla comunità è dimenticata (…). Allora la tensione ad un governo sinodale della Chiesa, al superamento della sacralità nel culto, alla secolarizzazione della figura del prete, al sacerdozio femminile possono prendere forma” (Futuro del cattolicesimo, p.211, la pagina finale). A distanza di un oltre decennio possiamo dire (e Baget Bozzo lo sapeva) che la provvidenziale (né potrebbe essere altrimenti) elezione al pontificato di Joseph Ratzinger allontana da noi l’affermazione di un “modello secolare” abilitato a alterare gravemente la vita ecclesiale.
La prevalenza del Nichilismo sul Cattolicesimo era diagnosticata, e temuta, per l’autenticità, forse l’esistenza stessa, della Chiesa e della vita soprannaturale. Ma opera in don Gianni una “sociologia cattolica” delle origini (più quella di Bonald che del cattolicesimo sociale), consapevole che un cristianesimo della fede purificata e invisibile tradisce la responsabilità cattolica per la Creazione, anche abbandonando le istituzioni e le forme sociali al loro destino moderno, il non senso, e al suo vettore, il progressismo libertario, emancipatorio. Al contrario, come aveva scritto molti anni prima a proposito di La Pira, “aprire la Chiesa al terrestre [in modo del tutto difforme da quello del cattolicesimo secolarizzante, approdato al PCI p.d.m.] voleva dire ridare spazio allo Spirito, vincere l’asprezza della legge e l’indurimento dei cuori” (Tesi sulla DC. Rinasce la questione nazionale, Bologna, Cappelli, 1980, p. 125-126).
Non sono in grado di valutare quanto a questa teologia politica (“il fatto cristiano come fondamento ultimo delle nazioni europee nella loro presente forma culturale” – detto sempre con riferimento a La Pira, Tesi sulla DC, p. 128), ulteriormente liberata dalla presa dell’utopia, abbia contribuito negli anni Ottanta il realismo modernizzatore e, per ciò stesso, non utopizzante, della sua dedizione intellettuale e politica al progetto craxiano. Ma tutto costituisce un bel tema di riflessione, per il rinnovamento di una teologia politica cristiana.
1) Il futuro del cattolicesimo. La Chiesa dopo papa Wojtyla, Casale M., Edizioni Piemme, 1997.