Per evitare il caos siciliano occorre poter sfiduciare il governatore
03 Giugno 2009
Nei giorni in cui il “caso Lombardo” offre una pausa dal clamore che l’ha fin qui accompagnato, è importante cogliere l’occasione per riflettere senza condizionamenti né forzature – in scienza e coscienza, si potrebbe dire – sul disegno di legge costituzionale presentato in Senato per introdurre nello statuto siciliano l’istituto della sfiducia costruttiva. Ovvero una norma in base alla quale, nel caso in cui il presidente della Regione venga meno al patto programmatico con la maggioranza che con lui ha vinto le elezioni, quest’ultima possa “sfiduciarlo” senza provocare automaticamente le elezioni anticipate se è in grado di eleggere un nuovo presidente. A condizione, naturalmente, che a sostenere il nuovo presidente sia la stessa maggioranza eletta dai cittadini e non una diversa compagine frutto di operazioni trasformistiche o di cosiddetti “giochi di palazzo”.
Vorrei sostenere una tesi "controcorrente": una norma siffatta non solo non è scandalosa, ma addirittura finirebbe col rafforzare e dare più stabilità a quella sovranità popolare che in questi giorni qualche commentatore disattento (o troppo interessato) ha sostenuto essere in pericolo. Vediamo perché.
Da una parte, l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province e delle regioni ha rinsaldato il collegamento tra gli elettori e gli eletti investiti della responsabilità di governo degli enti locali, e ha rappresentato un importante ingrediente di quella personalizzazione della politica che l’avvento del partito carismatico di massa ha contribuito a introdurre nel nostro Paese. Dall’altra, ha innescato una dinamica talvolta esasperata, trasformando alcuni sindaci e governatori in soggetti a sé stanti, completamente estranei quando non conflittuali anche rispetto agli stessi partiti che li hanno espressi. Non è un caso che Massimo D’Alema abbia parlato con preoccupazione del dilagare dei “cacicchi”; non è un caso neppure che sempre più spesso si vedano sindaci che vivono la fine del mandato come un dramma poiché non sono più in grado di reinserirsi nella vita politica se spogliati dall’incarico che hanno ricoperto fino al giorno prima.
Dunque, non è un’eresia pensare all’introduzione nel sistema di un correttivo che consenta di gettare via l’acqua sporca, salvando – anzi valorizzando – il bambino.
E qui veniamo al punto. Nelle elezioni regionali, infatti, il pronunciamento della sovranità popolare indica sia il presidente della Giunta, sia la maggioranza che in consiglio lo sostiene. Le due scelte non sono separate. Anzi, vanno di pari passo. Il grande progresso fin qui compiuto lungo la strada della modernizzazione dei nostri processi democratici ha consentito che il presidente non possa diventare ostaggio della sua maggioranza, poiché quest’ultima non può rovesciarlo. Ma la storia della Sicilia, da Milazzo in poi, ci insegna che il trasformismo non passa soltanto dai ribaltoni compiuti ad opera della maggioranza ai danni del presidente: può manifestarsi anche attraverso l’azione di un presidente che rovescia la sua maggioranza. Ed è evidente che anche in questo secondo caso è la sovranità del popolo ad essere tradita.
In una situazione del genere, consentire alla maggioranza di non soggiacere al ricatto delle elezioni anticipate e di eleggere un nuovo presidente senza mutare compagine, non solo non rappresenta un ritorno al passato, ma costituisce anche un elemento di stabilizzazione e un antidoto nei confronti del rischio di ribaltoni da parte del presidente stesso, e un efficace deterrente rispetto alla tentazione di agire prescindendo dalla maggioranza scelta dagli elettori.
Non è una bestemmia: è lo stesso meccanismo in virtù del quale in un sistema parlamentare maturo come quello inglese Major ha potuto raccogliere il testimone della Tatcher, e Gordon Brown ha preso il posto di Tony Blair. Tantomeno è un attentato alla sovranità popolare, che al contrario uscirebbe rafforzata da un riequilibrio dei rapporti tra il presidente della Regione e la sua maggioranza che eviti e prevenga possibili soprusi reciproci. Che, per parlar chiaro, impedisca alla maggioranza di compiere ribaltoni o mettere sotto scacco il presidente, ma impedisca anche al presidente di “licenziare” di botto tutti i suoi assessori.
Ci è stato contestato di aver proposto una norma “contra personam”, valida solo per la Sicilia nonostante la sua portata sistemica, ritagliata su un caso specifico per far fronte alla crisi in atto nella regione. Non nascondiamoci dietro un dito: se vi sono situazioni di difficoltà, non solo la politica ha il diritto di intervenire, ne ha il dovere. E’ evidente che di fronte a un problema una classe dirigente responsabile si chiede se vi siano “falle” nel sistema o leggi che possono essere migliorate affinché il problema non si verifichi più. Ed è altrettanto pacifico che una modifica statutaria come quella proposta in Senato possa essere introdotta in Sicilia e non in altre regioni poiché la Sicilia è una regione a statuto speciale.
Detto questo, noi auspichiamo che la frattura tra il presidente Lombardo e il PdL possa sanarsi per via politica, senza bisogno di mozioni di sfiducia. Se poi da questa crisi potrà derivare una riflessione sulle regole che sovrintendono il funzionamento del nostro sistema democratico, e l’individuazione di soluzioni che possano migliorarlo, sarà il Paese intero a trarne giovamento, e non solo la sua classe politica.