Per evitare l’emergenza democratica è ora di riformare il 416 bis

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Per evitare l’emergenza democratica è ora di riformare il 416 bis

26 Novembre 2009

Il Senato ha bocciato le mozioni dei gruppi di opposizione che chiedevano le dimissioni del sottosegretario e la Giunta per le autorizzazioni della Camera ha respinto la richiesta di arresto formulata dal GIP di Napoli a carico del sottosegretario Cosentino imputato di concorso esterno in associazione camorristica. L’esito era forse scontato (le Camere hanno concesso l’autorizzazione all’arresto di parlamentari solo in rarissimi e gravissimi casi) anche se le intemperanze di alcuni esponenti di spicco del PdL avevano fatto sorgere qualche dubbio. Avevano trasformato questa vicenda nell’ennesimo capitolo del braccio di ferro che il Presidente Fini ha deciso di fare con Silvio Berlusconi.

Ma la vicenda Cosentino, l’ultimo episodio dell’endemico scontro fra giustizialismo politico, giudiziario e giornalistico e civiltà democratica, stato di diritto e istituzioni liberali, può essere utile per sviluppare una riflessione su alcune gravi criticità del nostro sistema giudiziario. Il punto da cui partire è lo stesso capo di imputazione: concorso esterno in associazione mafiosa. Ci rendiamo conto che le nostre sono considerazioni “inattuali”, ma non possiamo dimenticarci del fatto che, a voler essere rigorosi,  è la stessa esistenza dei c.d. reati associativi ad apparire discutibile. In uno stato di diritto sono perseguiti coloro che commettono delitti. E coloro che partecipano alla commissione del fatto sono concorrenti nel reato. Il reato associativo è di per sé una “scorciatoia probatoria” utilizzata per perseguire, senza  essere riusciti a raggiungere la piena prova dei fatti, coloro che si ritiene abbiano partecipato alla commissioni di uno o più reati. A ragionare in termini astratti e rigorosi la dannosità e la pericolosità sociale (che giustifica la sanzione penale) deriva dai fatti di reato e non dall’esistenza di legami associativi. Ma siccome siamo in questa e di questa terra (e di questo Paese) ci rendiamo conto delle esigenze di alzare il livello del contrasto al crimine e quindi dell’opportunità di prevedere meccanismi che anticipino la tutela e rendano più efficace la repressione del crimine (soprattutto di quello organizzato). Ma questa consapevolezza non può e non deve far dimenticare come il reato associativo sia in quanto tale istituto delicato che deve essere maneggiato con grande attenzione, perché si può facilmente prestare ad abusi e distorsioni (si pensi solo alle associazioni politiche).

E non dobbiamo nemmeno dimenticare che la delicatezza dell’istituto è ancora maggiore nel caso dell’associazione a delinquere di stampo mafioso. L’art. 416 bis, sin da quando fu introdotto nel 1982, è assurto a simbolo dell’impegno dello Stato nella lotta alla criminalità ed è quindi diventato intoccabile. Ma anche accettando la necessità di una norma speciale per le associazioni mafiose, non possiamo far finta di niente e credere che tale norma sia del tutto coerente ed in linea con i principi dello stato di diritto. Basta dargli una fugace lettura: “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.” Più che una norma penale, rispondete ai fondamentali principi di tipicità e tassatività, siamo di fronte ad una descrizione sociologica del fenomeno mafioso. E quindi buon senso vorrebbe che quella cautela da utilizzare nei confronti del reato associativo venisse raddoppiata quando il reato in discussione è quello di cui all’articolo 416 bis del codice penale.

Ma i problemi sollevati dal caso Cosentino sono anche più gravi. Il sottosegretario è infatti imputato di “concorso esterno” in associazione mafiosa. Ora se incerta è la condotta tipica del reato associativo, se quasi indefinibile è quella dell’associazione mafiosa, del tutto evanescente è poi quella del concorrente dall’esterno in reato associativo (che infatti era ritenuta figura insussistente da un orientamento ormai lontano della Cassazione). Ed infatti se le forme di partecipazione ad un’associazione a delinquere sono del tutto indeterminate e se la stessa tipicità dell’associazione mafiosa è assai incerta, ebbene delle due l’una se io collaboro, aiuto partecipo alle attività dell’associazione ne faccio parte altrimenti le sono estraneo. Cosa differenzi l’associato dal concorrente dall’esterno all’associazione è oggetto di fede più che di ragione.

E da ultimo vi è un altro profilo della vicenda che non può essere sottaciuto e che è ormai diventato un elemento strutturale del nostro sistema giudiziario. L’intero impianto accusatorio nei confronti di Cosentino è costruito su dichiarazioni di camorristi pentiti, senza riscontri di carattere oggettivo. Il tema dell’uso dei pentiti è vecchio e risale alla stagione del terrorismo. Ma se non può essere negato che il fenomeno dei pentiti abbia contribuito alla sconfitta del terrorismo, non si può sottacere come oggi il fenomeno abbia mutato di segno. Se il pentimento di un criminale politico che agiva sulla base di ragioni  ideologiche poteva a certe condizioni essere ritenuto attendibile, è chiaro che nel caso dei criminali comuni la decisione di diventare collaborare con la giustizia è presumibilmente il frutto di un cinico calcolo di convenienza. Il pentito comune decide come e quando pentirsi, cosa e quanto dire sulla base dei vantaggi (giudiziari, criminali, personali) che spera di ricavare. E per quei vantaggi sarà sempre disponibile a dire ciò che i suoi interlocutori magistrati si attendono che lui dica.

La verità è che la legislazione penale degli ultimi trent’anni è stata costruita sulla base di emergenze. A volte ha funzionato bene, a volte molto meno. Ma ha indiscutibilmente ha recato danni gravi e profondi alla coerenza ed all’equilibrio complessivo del sistema. Ormai viviamo in una situazione paradossale. Una situazione nella quel uno degli uomini politici più potenti della storia della repubblica (per sette volte Presidente del Consiglio) viene processato per associazione mafiosa e viene assolto. Per essere poi nominato senatore a vita e venerato quasi come fosse la Madonna. Un Paese nel quale da mesi si rincorrono voci secondo le quali per l’attuale Presidente del Consiglio, l’uomo che in tre occasioni è riuscito a vincere le elezioni conquistando la fiducia degli elettori sarebbe imminente l’imputazione di essere niente di meno che il mandante delle stragi mafiose del ’92 (forse, dopo l’omicidio di Aldo Moro, il crimine più odioso dell’intera storia italiana).

E’ ormai evidente la necessità di affrontare il nodo. Occorre che il Parlamento ed il Governo riformino la legislazione emergenziale che consentito e favorito prassi giudiziarie incompatibili con la civiltà del diritto e inutili, quando non  dannose, per un’efficace lotta al crimine organizzato. E’ in particolare necessario rivedere la formulazione del 416 bis in modo da rendere tipica ed oggettiva la descrizione del reato. Così come occorre intervenire sulla figura, di elaborazione giurisprudenziale, del concorso esterno in associazione mafiosa e sul regime del valore probatorio delle chiamate in correità dei pentiti.

L’emergenza giudiziaria nella quale viviamo ormai da anni ha finito per causare una vera e propria emergenza democratica. E, se non si interviene tempestivamente ed in modo efficace, l’Italia rischia di precipitare in una sorta di guerra civile e le istituzioni – tutte, anche quelle giudiziarie – rischiano di implodere. Il che, al di là di tutto il resto, sarebbe il migliore regalo che possiamo fare alla mafia (ed al clan dei Casalesi).