Per gli Usa il problema non sono gli insediamenti di Israele ma l’Iran
24 Settembre 2009
di redazione
Gerusalemme. C’era una volta la diplomazia dei sorrisi, quella che mascherava gli insuccessi, trasformava un inutile summit in un evento mediaticamente spendibile. Persino questo gesto futile, il sorriso, è mancato all’imbarazzante simulacro di vertice voluto da un Presidente americano, Barak Obama, che aveva promesso di imprimere una svolta al Medio Oriente e sta scoprendo a sue spese quanto ardua sia la strada della pace in una regione strutturalmente violenta.
Nella sala al terzo piano dell’Hotel Waldorf Astoria, Obama si è comportato come l’insegnate che rimprovera i suoi alunni per non aver fatto bene i compiti. Ha tirato le orecchie in ugual misura al premier Netanyahu e al presidente Abu Mazen. Ha manifestato la sua impazienza. Ha esortato i leader israeliano e palestinese ad avere più coraggio. Ma ha dovuto implicitamente riconoscere uno dei suoi errori: più plateali. Ha chiesto ad Israele un “containement”, un contenimento, delle nuove costruzioni negli insediamenti in Cisgiordania, un termine ben più sfumato di quello che era entrato nel lessico della Casa Bianca, “freezing”, congelamento.
Il cambio di tono ha sorpreso positivamente Netanyahu. Il premier israeliano non ha rinunciato a togliersi i sassolini dalle scarpe. In una intervista alla CNN, ha sottolineato che la richiesta di un congelamento degli insediamenti si è risolta in una perdita di tempo, come aveva predetto. Abu Mazen, al contrario, si è trovato nella scomoda posizione di spiegare che l’appello americana per la ripresa immediata dei negoziati non è una sconfessione della posizione palestinese.
Il pressing americano, a ben vedere, ha ottenuto un risultato paradossale. Obama voleva rafforzare Abu Mazen e indebolire Netanyahu. E’ accaduto l’esatto contrario. I ribelli del Likud, capitanati da Silvan Shalom, non hanno potuto fare altro, ieri, che riseppellire l’ascia di guerra. Abu Mazen invece deve affrontare i mugugni di molti luogotenenti di Fatah e le critiche aperte di Hamas…
L’inconcludente vertice di New York è il frutto di attese che si sono rivelate ingenue. Obama era convinto di poter ottenere dal mondo arabo contropartite al congelamento degli insediamenti ebraici.
Una speranza che è evaporata definitivamente il 13 settembre, quando l’ambasciatore saudita a Washington ha recapitato la lettera di risposta del Re all’appello bipartisan di 225 membri del Congresso americano. I deputati chiedevano gesti verso Israele per costruire un clima di fiducia e rilanciare il Piano di pace arabo. La risposta saudita escludeva recisamente qualunque concessione prima di una intesa sui nodi del conflitto: confini, Gerusalemme, rifugiati. Per Israele il no saudita conferma che il Piano arabo non è uno strumento flessibile per far avanzare il processo di pace.
Obama in difficoltà anche sugli altri fronti del Medio Oriente. Gli appelli al dialogo rivolti a Damasco sono rimasti inascoltati: la Siria resta un fedele alleato dell’Iran e continua a sostenere le forze più radicali della regione, in Libano e in Iraq. L’apertura di credito all’Iran non ha fermato le centrifughe che arricchiscono uranio e ha posto gli Stati Uniti in una posizione di debolezza quando il presidente il regime degli ayatollah ha gettato la maschera, mostrando il suo volto autoritario nella repressione della protesta contro i brogli elettorali.
Di fronte alle difficoltà, una riflessione si impone, alla Casa Bianca. E ci sono i primi segnali di una correzione di rotta. Il banco di prova più importante è quello iraniano. E’ tempo per Obama di rompere gli indugi e promuovere sanzioni incisive contro un regime che minaccia non solo Israele, ma anche gli alleati arabi degli Stati Uniti.