Per i vescovi dell’Iraq è sbagliato riunire i cristiani nella piana di Ninive
18 Gennaio 2010
In Iraq continua la spirale di violenza contro i cristiani e proseguono gli attacchi per spingere la comunità ad abbandonare il Paese, che qui ha una tradizione millenaria. Pochi giorni fa si verificato l’ennesimo omicidio a Mosul, nel nord dell’Iraq. Un uomo di 75 anni, Hikmat Sleiman, proprietario di un piccolo negozio di verdura nel quartiere di Sa’a, è stato ucciso nella propria casa, al rientro dal lavoro. Negli ultimi due mesi a Mosul sono state attaccate quattro chiese e un monastero di suore domenicane, e sono andate distrutte numerose abitazioni. Cinque cristiani sono stati assassinati, altri sono vittime di sequestri. È accaduto, per esempio, a Sarah Edmond Youhanna, una ragazza cristiana studentessa al primo anno della facoltà di educazione all’università di Mosul, sequestrata il 28 dicembre scorso da un gruppo islamico mentre era all’università. Notizia che ha creato panico e scompiglio tra le ragazze cristiane che frequentano l’ateneo, da tempo oggetto di attacchi, perché si truccano o perché non portano il velo.
Un progetto di "pulizia etnica", lo ha definito monsignor Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk, che sottolinea il forte scoramento diffuso tra la comunità cristiana, che paga sia lo scarso impegno del governo iracheno nel garantire una reale protezione ai cristiani ma anche la mancanza di una strategia comune da parte della Chiesa locale. Gli attacchi sono legati alle elezioni di primavera: "I cristiani sono un bersaglio facile," dice Sako, "soffrono una situazione complicata, la diatriba della Piana di Ninive", un piano per cui si vorrebbe riunire tutti i cristiani in un solo luogo. Secondo monsignor Shlemon Warduni, vescovo ausiliare caldeo di Baghdad, è un’idea assurda e insensata. "Significherebbe metterli in un ghetto, in una gabbia, schiacciarli nel conflitto tra arabi e curdi". Con un appello al Governo, Waduni chiede il rispetto della dignità, della libertà e dei diritti fondamentali: "vivere in pace, annunciare il Vangelo e contribuire alla costruzione dell’Iraq".
I cristiani che in qualche modo avevano imparato a convivere con il regime di Saddam Hussein sono ripiombati nel baratro della persecuzione. Dal 1 agosto 2004 allo scorso novembre si contano oltre 1.200 morti e una fuga disperata dei fedeli delle varie denominazioni. Il 4 dicembre scorso, a Erbil, capitale semi-autonoma curda, un gruppo di cristiani ha ospitato la Second Popular Conference of the Chaldean Syrian Assyrian Popular Council, per elaborare un piano condiviso sul futuro della comunità. Una delle tematiche affrontate è stata la complessità del mondo cristiano iracheno e la scelta della denominazione del gruppo etnico-religioso per ottenere un pieno riconoscimento. Dopo intense discussioni e confronti è spuntata la sigla "CSA", che sta per Caldhean Syriac Assyrian, e che rispecchia le percentuali dei credenti presenti sul suolo iracheno. Ora la proposta passerà al governo centrale.
Il secondo punto all’ordine del giorno è stata la discussione sul progetto ‘Piana di Ninive’. L’idea della Popular Conference e di Sarkis Aghajan, siro di fede e di nascita, ex ministro delle Finanze dell’autorità regionale, è di creare una striscia cristiana nelle disputed areas a ridosso di Mosul, a confine tra Iraq e Kurdistan, terra rivendicata da popoli diversi, dove i cristiani sono a maggioranza da secoli. Il Kurdistan, pur di aumentare la popolazione annettendosi una parte di territorio iracheno, attende a braccia aperte la realizzazione del progetto. Ad opporsi non sono solo i due partiti cristiani del governo centrale, rimasti indifferenti alla idea della enclave, ma anche le gerarchie ecclesiastiche irachene.
A complicare il quadro della ‘Piana di Ninive’ è anche la silenziosa persecuzione contro le minoranze degli Yazidi e gli Shabaki, che in atto dal 2003, può essere eguagliata per efferatezza e numero di morti allo sterminio cristiano. Lo sforzo, secondo i promotori del Popular Council, sarà proprio quello di creare un’entità capace di accogliere chiunque voglia vivere pacificamente al suo interno. Ma intanto i cristiani continuano a soffrire, a lasciare le proprie case, costretti a soffocare la loro fede o a rinunciare alle loro feste come è avvenuto il Natale, trascorso nel silenzio. Nelle nove chiese che compongono l’arcidiocesi locale le celebrazioni natalizie sono state annullate e questo non solo per le tensioni pre-elettorali, ma anche perché le festività natalizie quest’anno sono coincise con l’Ashura, una delle feste più importanti nel calendario sciita, che commemora il martirio di Hussein, nipote del profeta Maometto, ucciso a Karbala nel 680 d.C.
La comunità cristiana è stata invitata esplicitamente a non mostrare la propria gioia, a non festeggiare pubblicamente la festa della Natività, perché inopportuna nei confronti degli sciiti che sono in lutto. Ormai ridotta del 25%, la comunità cristiana continua la sua fuga verso il Kurdistan, a nord del paese, in Siria e Giordania; i pochi che rimangono vivono in enclavi isolate. Mentre gli attacchi alle chiese hanno un significato fortemente simbolico, perché intaccano nel profondo la fede, le certezze, l’identità stessa dei cristiani, le persecuzioni minano invece la loro sicurezza e incutono terrore che spinge all’esodo e all’isolamento, con l’unico obiettivo di svuotare l’Iraq dalla presenza cristiana. Considerando che la maggioranza dei mullah predicano odio e alimentano il fondamentalismo anticristiano, l’operazione potrebbe riuscire.