Per il compagno Bertinotti guai a chi tocca la Costituzione
12 Settembre 2010
di Luca Negri
Mentre il mondo politico italiano si interroga sulle prossime mosse dell’attuale Presidente della Camera, il preteso frondista Gianfranco Fini, arriva in libreria il nuovo libro firmato dal suo predecessore Fausto Bertinotti. Con smacco di Vittorio Mancuso, che di recente ha sollevato il dilemma se sia morale per uno scrittore sincero democratico pubblicare le proprie opere con le case editrici di proprietà del Premier, Chi comanda qui? Come e perché si è smarrito il ruolo della Costituzione esce col marchio Mondadori. In fondo l’ex segretario del Partito della Rifondazione Comunista non ha mai flirtato troppo con l’antiberlusconismo più ringhioso né con le soluzioni manettare e la decennale tradizione della “via giudiziaria al socialismo”.
Questo perché Bertinotti non solo coglie la pochezza di proposta politica del fronte anti “Caimano” (a differenza del povero Bersani pronto ad ogni governicchio d’ennesima emergenza) ma perché probabilmente considera il sistema giudiziario una sovrastruttura. Bertinotti è infatti, ancora, marxista. Nonostante sia stato costretto (complice il Porcellum di Calderoni) ad accompagnare mestamente i resti del partito comunista più forte d’Occidente fuori dalle Camere nel 2008, rimane un convinto allievo del barbuto di Treviri. La questione del lavoro resta infatti al centro della sua analisi, anche in questo volume con il quale entra nel dibattito “su cosa è vivo e cosa è morto” nella Costituzione italiana.
Bertinotti lo chiarisce subito: la Carta vergata dai padri costituenti “è un capolavoro”, addirittura “uno dei punti più alti nella storia del diritto costituzionale di tutti i tempi”. Dunque non può essere ritoccata, ripensata, adattata ai nostri giorni. Con essa si è finalmente realizzato il superamento del sistema liberale per approdare alla Repubblica laburista. Ogni restauro sarebbe un tornare indietro, un pericoloso segnale di “Costituzione materiale regressiva”, di “rivoluzione conservatrice che sembra riannodare i fili scovati nella biografia della nazione”. Insomma, si ripiomberebbe nel fascismo.
Dunque le ipotesi di repubblica presidenziale o premierato forte non vengono nemmeno prese in considerazione dal Nostro, anzi aborrite, giacché un aumento di sovranità del capo dello Stato o del Governo equivarrebbe ad un esproprio ai danni del popolo e dell’assolutismo parlamentare. La “dialettica di classe” è l’unico attore legittimato ad esercitare il potere, unica diga al possibile ritorno dell’assolutismo manifestatosi con il nazifascismo.
Sono due gli articoli della Carta a essere più cari a Bertinotti: ovviamente il primo ed il terzo. L’incipit della Costituzione, “la Repubblica democratica fondata sul lavoro” richiama quella sovietica del 1936; a suo parere si tratta di una garanzia. L’articolo 3, “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”, è quello “chiave”, un “testo eversivo”: con esso il “carattere programmatico” e finalistico del documento è espressamente rivendicato. Lo Stato, o meglio la Repubblica, o meglio ancora la classe, ha il dovere di intervenire in materia economica, l’autorità di decidere cosa sia “il pieno sviluppo della persona umana”.
Negli ultimi anni Bertinotti ha poi anche abbracciato senza riserva il pacifismo dei movimenti no global, dunque non può mancare l’elogio dell’articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Oltre a contrapporsi all’ideologia neoconservatrice della guerra preventiva, si riallaccia alla Costituzione francese del 1791; quella che Napoleone volle esportare in tutta Europa con le sue armate.
Il limite, infatti, dei bei propositi dell’ultimo comunista è proprio quello di considerare le amate costituzioni, quella giacobina, quella sovietica e la nostra odierna, come levitanti sopra i reali processi storici. Così può permettersi di scrivere che con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 l’autorità e la forza dello Stato vengono “piegate a un’entità superiore: i diritti umani”, mentre un qualsiasi libro di storia delle scuole medie ci può raccontare come i diritti umani furono rispettati dai rivoluzionari francesi per mezzo della ghigliottina.
Per non parlare del trattamento riservato ai vandeani che avevano l’unica colpa di non essere troppo entusiasti delle novità parigine. Se poi il nazifascismo è stato veramente “il male assoluto” sarebbe stato più onesto dedicare almeno qualche riga sugli orrori della Russia sovietica. I Gulag, i processi di Mosca e l’ecatombe dei kulaki non fanno capolino nel testo dell’ex Presidente della Camera.
Stesso discorso vale per la “temperie culturale… una delle più alte che la storia moderna abbia conosciuto” nella quale è stata forgiata la nostra Costituzione: la Resistenza. Bertinotti sorvola ed omette tutta la recente storiografia sui misfatti delle brigate comuniste, sulla volontà di instaurare un regime sovietico nella Penisola che solo l’ordine di Stalin ci risparmiò.
Poco felici ci sembrano anche le suggestioni cattocomuniste che lancia richiamandosi a Maritain e Dossetti. Per costoro infatti la questione sociale e giuridica era inscindibile dalla lettura metafisica della realtà. L’ultimo marxista ama citare San Paolo e lo fa anche in questo libro: “in Gesù Cristo non c’è più né schiavo né libero”. Si tratta di “una concezione che mina dalle fondamenta la società schiavistica”, è vero, ma quel “in Gesù Cristo” non può essere letto come semplice evento storico. Senza la fede nel Messia ed il riconoscimento della sua filiazione divina la dignità dell’essere umano poggia sul nulla. Bertinotti è però materialista ed ateo e non può che riservare tutta la sua devozione alle leggi scritte dagli uomini. È così che la costituzione diventa un dogma intoccabile.