Per il Sessantotto è giunta l’ora di fare i conti con la storia
18 Agosto 2007
Ho preso parte attiva, come semplice militante di base, agli inizi del cosiddetto Movimento Studentesco di Torino fin dall’autunno del 1967. Nell’autunno del 1969, come quasi tutti i “torinesi”, avevo spostato il baricentro della mia attività da Palazzo Nuovo, sede dell’università, a via Passo Buole, sede di Lotta Continua, che si trovava più vicina agli stabilimenti FIAT, il cuore “delle lotte” come allora si usava dire. Avevo accettato come naturale e positiva la trasformazione di quello che era stato fino ad allora un movimento libertario ma dai labili confini in un gruppo più rigidamente costituito che si riconosceva nel settimanale Lotta Continua (il primo numero uscì il 1o novembre 1969). Davanti ai cancelli degli stabilimenti FIAT andavo però poco, perché non avevo alcuna capacità di mettermi in relazione con “la classe operaia”. I vecchi operai, quasi tutti piemontesi (e qualche veneto), mi zittivano con la loro etica del lavoro e la loro fedeltà al PCI. I giovani, quasi tutti neo-assunti meridionali, mi stupivano per il loro qualunquismo urlato e il rigetto del patrimonio storico della sinistra, che ignoravano e disprezzavano.
Dopo una lunga pausa dovuta al servizio militare, nella primavera del 1972 ribussai alla porta di Lotta Continua (il settimanale era diventato quotidiano l’11 aprile), sede di via Dandolo, a Roma, offrendo la mia generica collaborazione a Guido Viale, uno dei dirigenti che conoscevo meglio, e suggerendo che forse avrei potuto scrivere di Stati Uniti e di mondo anglosassone in genere. Ma ci volle poco a capire che l’atmosfera del gruppo era molto cambiata. Sia il giornale che il partito (che non amava definirsi tale, ma che certamente da tempo lo era) erano in mano a un ristrettissimo nucleo di persone, sui quali Adriano Sofri faceva il bello e il cattivo tempo. Era anche cambiata l’atmosfera del paese. Il movimento andava ormai di pari passo con le rapine proletarie e i sequestri dimostrativi, e gli attentati e le bombe erano all’ordine del giorno. Sofri, Viale e Marco Ventura mi proposero di occuparmi e di scrivere di terrorismo, argomento del quale, come dissi loro, non sapevo assolutamente niente.
Per qualche tempo, forse qualche settimana o soltanto qualche giorno, non ricordo più (e non ho modo di verificarlo, visto che nessun articolo di Lotta Continua veniva firmato e la paura del “colpo di stato” suggeriva di non tenere alcun archivio personale), cercai di scrivere articolini che erano nient’altro che collages di informazioni tratte dagli articoli dei quotidiani “borghesi” del giorno prima, reinterpretati “da sinistra”. L’idea di fondo era che tutte le azioni terroristiche erano sempre e comunque opera di un unico gruppo di azione che faceva capo ai servizi segreti americani e italiani che utilizzavano manodopera fascista, e che quando le firme di tali azioni terroristiche erano “di sinistra”, non si trattava altro che “provocazioni” collegate alla cosiddetta “strage di Stato”, fortunata definizione mediatica coniata dagli autori di un libro-inchiesta sul terrorismo pubblicata nel 1970.
Spesso, però, i conti non mi tornavano, cosicché i miei articolini esprimevano dubbi e comunque cautela: finché non fosse stato provato, sostenevo, non si poteva attribuire tale o tal’altra azione terroristica a chicchessia. Dopo una serie di tira e molla, con io che scrivevo pezzi “dubbiosi” da una parte (e magari definivo “autorevole” il Corriere della Sera), e la direzione del giornale che li censurava o non li pubblicava dall’altra, fu Sofri stesso a mettermi alla porta. La “verità” non esisteva, mi spiegò. Di verità ce n’era una sola, quella “delle masse” (o di chi ne interpretava la volontà, vale a dire la dirigenza di Lotta Continua). Prima veniva “la linea”, poi, eventualmente, “il fatto”. Purché fosse rivolta contro “i nemici delle masse” e fosse utile ad aumentare il livello di coscienza delle “lotte” (o “l’incazzatura”, come recitava il verbo di Lotta Continua), qualsiasi affermazione era giustificata, Gli atti di terrorismo andavano sempre e comunque attribuiti a chi ne aveva la responsabilità “oggettiva”, vale a dire agli apparati responsabili della “strage di stato”. Insomma, Sofri concluse chiudendo la porta, quel tipo di articoli “alla ricerca della verità” li potevo scrivere per Panorama, non per Lotta Continua. Non passai a Panorama e non feci mai il giornalista. Ma decisi allora che quel tipo di politica, falsa, faziosa e ipocrita, nonché violenta e pericolosa, che da una parte urlava contro la “violenza di stato” e dall’altra strizzava l’occhio al terrorismo, non faceva per me. E fui ben contento di non dovere più essere annusato da quei due enormi mastini napoletani che facevano la guardia alla sede di Lotta Continua.
Si era, allora, ancora nel 1972. I peggiori “anni di piombo” dovevano ancora venire. Ma le premesse c’erano già tutte. La cronologia di quel decennio, ora genericamente definito come “il Sessantotto”, è ben nota ed è inutile ricordarla qui. Vale però la pena di insistere sul fatto che quanto accadde in quegli anni nell’arcipelago della sinistra extraparlamentare, inclusa Lotta Continua, è un’ulteriore riprova dell’inestricabile legame tra utopismo rivoluzionario, violenza verbale e fisica (la seconda allora per fortuna molto minore della seconda), e sostanziale disprezzo per la persona umana. Rileggetevi in proposito il miglior libro su Lotta Continua che io conosca, quello del giornalista del Corriere della Sera Aldo Cazzullo (I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, 1998), un collage ragionato di memorie di protagonisti da cui soprattutto risulta l’enorme e contradditorio baratro che separava la proclamazione del grande ideale e la piccola pratica quotidiana. Anch’io, quando con Alberto Collo (oggi informatico di altro livello), Sandro Lenite (poi morto di droga), Cesare Bonaglia detto “Ventuno” (allora abbagliato dai fedayn palestinesi) e Marco Revelli (oggi storico come me) mi prendevo a sassate e bastonate con poliziotti e fascisti, credevo di migliorare il mondo preparando la rivoluzione. Anch’io, invece, contribuivo a distruggere una buona fetta di quella libertà, per me e per gli altri, che per la quale milioni di uomini e donne, incluso mio padre, avevano rischiato la vita o l’avevano sacrificata combattendo contro il nazifascismo soltanto un quarto di secolo prima.
Del fatto che si tratti di una contraddizione in cui, in quegli anni, siamo caduti in tanti, ho avuto conferma leggendo l’ultimo libro dell’inviata del Giornale Fiamma Nirenstein (Israele siamo noi, 2007), anche lei “movimentista” di quegli anni. Pochi però, mi pare, ne prendono atto esplicitamente, forse soltanto per paura di essere accusati di “deriva reazionaria” o addirittura di “tradimento” dagli amici e dai compagni di un tempo. C’è poi chi rinnega il suo passato, ma fa finta (o pretende) di non accorgersene. Per esempio il leader in pectore del futuro Partito democratico, Walter Veltroni, che nel suo discorso di Torino (27 giugno) ha gioito per “l’abbattimento del Muro, con la vittoria della libertà sulle dittature comuniste” e la speranza di “un tempo nuovo … un tempo di libertà” — come se l’esperienza del PCI fosse stata cosa di altri, e non sua. E che, nella stessa occasione, ha espresso la speranza di una nuova “mobilità sociale” come quella così “forte dai primi anni ’60 fino alla metà degli anni ’70” — dimenticando che fu proprio il Sessantotto a porsi come suo primo nemico proprio quel modello di mobilità sociale.
La realtà è che si continuano a confondere i due piani. Uno è il piano della maturazione personale per il tramite di una esperienza di impegno e di difficoltà certamente significative sul piano individuale, ciò che per molti effettivamente avvenne durante il Sessantotto. Per molti quel movimento fu il minimo comune denominatore nel quale riversare quelle speranza di miglioramento, di rinnovamento e di cambiamento che negli anni precedenti avevano trovato espressione nelle comunità di base del cattolicesimo di sinistra, nelle esperienze lavorative nei kibbutz israeliani, o in piccoli gruppi giovanili post-resistenziali (Nuova Resistenza, appunto), tutti egualmente lontani dal PCI filosovietico, nonché della sua appendice giovanile, la FIGC (quella a cui allora facevano capo sia Veltroni che Massimo D’Alema, per intenderci). Per altri, più giovani, si trattò di un rapidissimo battesimo di fuoco: letture frenetiche, discorsi in pubblico, confronti con l’autorità professorale e genitoriale, violenza di piazza, crollo della sfera privata. (Che tale “maturazione personale” sia a volte avvenuta provocando danni alla controparte di allora, nella peggiore delle ipotesi sotto forma di danni fisici irreversibili alle persone che erano oggetto delle bastonate, delle sassate, per non parlare delle bottiglie molotov, è cosa riguarda le responsabilità individuali di ciascuno e che non può essere oggetto di una valutazione complessiva di tipo generazionale.)
L’altro piano è quello dei risultati politici del movimento. Visti quarant’anni più tardi alla luce della storia, questi risultati sono tutti sostanzialmente di segno negativo. Di quegli anni, una generazione più tardi, sono rimasti i luoghi comuni ancora veicolati dalla nuova classe dirigente formata in buona parte da reduci del Sessantotto oggi sui 55-65 anni, o da gente magari più giovane che del Sessantotto ha sposato soprattutto quei luoghi comuni: l’egualitarismo di facciata; l’immobilismo sociale e l’ostilità verso qualsiasi competizione; l’antiautoritarismo imposto dai docenti (che si lamentano della “passività” dei “nostri ragazzi”); l’incapacità di pronunciarsi chiaramente a favore dei migliori valori universali di cui la società occidentale è portatrice; per non dire delle scelte internazionali, sempre elitiste (vedi l’illusione dell'”altra America”), terzomondiste (le dittature sudamericane) e antioccidentali (Israele), ma che mettono in pace con la coscienza.
Quegli anni furono a volte “formidabili” dal punto di vista personale, per usare un altro luogo comune derivato dalle memorie di uno dei leader movimentisti di allora, Mario Capanna (Formidabili quegli anni, 1988), anche se molti ne furono travolti e si distrussero nella droga, che cominciò a fare le sue vittime proprio negli anni settanta. Ma sul piano politico l’unica eredità politica positiva che mi viene in mente è la presa di coscienza della condizione di subalternità della donna, qualcosa che oggi si dà comunemente per scontata, ma che negli anni sessanta e settanta non lo era affatto. Anche se, probabilmente, tale presa di coscienza sarebbe comunque avvenuta anche in Italia come nel resto del mondo occidentale indipendentemente dal Sessantotto, anche perché il movimento femminista si sviluppò in maniera indipendente e spesso addirittura in aperta contraddizione tanto con il movimento studentesco quanto, e soprattutto, con i partitini della sinistra extraparlamentare.
Se trent’anni fa era vietato mettere in discussione la Resistenza, oggi è ancora vietato mettere in discussione il Sessantotto, se non per ricordarlo nostalgicamente come si ricorda la propria giovinezza o per affermare genericamente che il potenziale libertario del movimento venne inquinato dall’estremismo terrorista di Brigate Rosse e gruppuscoli affini. È troppo poco. Sono passati quarant’anni. Ormai i fatti li conosciamo e non abbiamo più bisogno di altra memorialistica. I documenti sono più che sufficienti. Come per tutti i fatti storici, adesso dobbiamo passare all’interpretazione, e distinguere il piano personale di coloro che vi furono coinvolti (e che riguarda soltanto l’individuo) dal piano complessivo dei risultati politici del movimento.%3C/p>