Per il Sud va bene la “Cassa” ma con un forte coordinamento centrale

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Per il Sud va bene la “Cassa” ma con un forte coordinamento centrale

01 Agosto 2009

Con la decisione del CIPE di sbloccare gli oltre 4 miliardi destinati al finanziamento del PAR (questo è l’orribile sigla) della Sicilia la telenovela estiva del Partito del Sud sembrerebbe (definitivamente?) archiviata. Si tratta senza dubbio di un successo di Berlusconi che in questo modo ha disinnescato una mina che se trascurata avrebbe potuto far esplodere l’intero sistema politico che faticosamente stiamo cercando di far evolvere verso un modello più moderno ed efficiente.

Tutto bene, dunque? Non esattamente, perché nella decisione del Governo manca ancora una chiara lettura delle cause del ritardo del Mezzogiorno e delle strategie che è necessario seguire per aggredire il problema. In particolare occorre comprendere per quali motivi a sedici anni dalla soppressione della (vituperata) Cassa per il Mezzogiorno la qualità degli interventi in favore delle aree meridionali sia ulteriormente peggiorata. Il punto è che la giusta polemica contro le degenerazioni della Cassa (che pure nella prima fase della sua vita ha svolto un ruolo senz’altro positivo nel ridurre il divario fra il Nord ed il Sud del Paese) ha finito per travolgere un principio che invece ci appare irrinunciabile. Con la Cassa è stata posta in liquidazione l’idea stessa dell’intervento straordinario e si è afferma l’idea che la strada migliore per affrontare la questione meridionale fosse rafforzare l’intervento ordinario (irrobustito da maggiori finanziamenti). Il baricentro dell’intervento è stato spostato dallo Stato alle regioni ed agli enti locali. Si è costruita una barocca architettura di programmazione regionale e locale che si è rivelata fallimentare. Fallimentare sia in termini di risultati finali sia in termini di capacità di spesa. Occorre riconoscere che il blocco dei Fondi FAS (così come i casi utilizzo dei medesimi fondi per coperture finanziarie differenti) era in primo luogo motivato dalla ridotta capacità delle amministrazioni di utilizzare effettivamente le risorse disponibili. Fino al punto che oggi assistiamo al piagnisteo di presidenti di regioni meridionali che rivendicano risorse nonostante non siano stati nemmeno in grado di presentare i relativi piani di utilizzazione. 

Il punto più basso di questa deriva è rappresentato dall’esperimento della programmazione negoziata basata sull’idea che un assetto consociativo con regioni, enti locali e parti sociali potesse assicurare maggiore coerenza ed efficacia gli interventi Ma la moltiplicazione dei soggetti coinvolti ha inevitabilmente finito per determinare un’ulteriore crescita dei costi di transazione ed amministrazione.

 Ma l’impostazione seguita si è rivelata fallimentare per almeno due ordini di ragioni: In primo luogo occorre considerare i caratteri propri della questione meridionale che è questione straordinaria (perché deriva da cause profonde e strutturali radicate nella storia del Paese) e nazionale (perché la sua mancata soluzione condiziona pesantemente le potenzialità di tutto il Paese). Ebbene se la questione meridionale è questione straordinaria e nazionale è sensato pensare di affrontarla affidandosi all’intervento ordinario gestito dalle amministrazioni regionali e locali? Occorre poi considerare un ulteriore profilo specifico. Una delle cause fondamentali del ritardo delle regioni del Sud risiede indubitabilmente nell’inadeguatezza delle classi dirigenti meridionali, troppo spesso gravemente deficitarie nella cultura di governo e portatrici di logiche particolaristiche. Ebbene se ciò è vero ha senso affidare alle medesime classi dirigenti la progettazione e la gestione degli interventi che dovrebbero servire a colmare un divario che quelle classi per prime hanno contribuito a creare?

Orbene sia chiaro. Nessuno può sensatamente avere nostalgia della Cassa per il Mezzogiorno, soprattutto di quella che abbiamo conosciuto negli ultimi vent’anni della sua esistenza. Nella stessa misura però nessuno può dubitare che sia necessario un forte coordinamento statale nella gestione delle risorse straordinarie stanziate per il mezzogiorno.

Per avviare una vera politica per il mezzogiorno occorre cambiare radicalmente registro. L’incremento delle risorse disponibili è senz’altro una buona notizia. Occorre però intervenire anche sulle modalità di utilizzo, perché i capitali da soli non sono in grado di attivare nessun processo di sviluppo. In particolare occorre concentrare gli sforzi sui fattori strutturali di ritardo che minano la competitività meridionali e tengono lontani i capitali (nazionali ed esteri). Fattori che a nostro avviso sono sostanzialmente riconducibili a tre categorie: deficit infrastrutturale, sicurezza pubblica,debolezza del capitale umano.

Occorre poi cercare di attivare spontanei processi imprenditoriali compensando i costi indiretti che le imprese che operano al Sud sopportano per il solo fatto di essere in quest’area del Paese. E’ necessario in particolare un abbattimento delle imposte sulle attività di impresa (almeno su quelle nuove) in modo da rendere più attraente l’investimento privato al Sud. Si tratterebbe di una misura di impatto finanziario ragionevole (si pensi che l’azzeramento dell’imposta sulle società di tutto il Mezzogiorno costerebbe complessivamente poco più dell’ammontare delle risorse Fas sbloccate per la sola Sicilia) ma di grande efficacia, anche perché sottratta al potere di intermediazione della burocrazia e del malaffare.

Solo se lo Stato svolgerà fino in fondo la propria funzione (la fornitura di quei beni pubblici che il mercato non è in grado di produrre) e se il mercato sarà posto in grado di svolgere la propria sarà possibile vedere la fine di quella storia infinità che è la questione meridionale.