Per la presidenza UE Blair è la scelta giusta

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Per la presidenza UE Blair è la scelta giusta

Per la presidenza UE Blair è la scelta giusta

15 Gennaio 2008

La domanda interessante
da porsi non è se Tony Blair sarà o meno Presidente dell’Unione europea. Lo
scontro politico-diplomatico che si aperto con il varo delle nuove istituzioni
del Trattato di Lisbona non ha messo ancora in chiaro le posizioni dei vari protagonisti
e ad oggi le candidature solo ipotetiche di Blair e Juncker sono più frutto di rumors che di reali progetti politici
sostenuti dai vari Stati nazionali che compongono l’Unione. La vera questione
sul terreno è se Tony Blair sarebbe un buon Presidente dell’Unione europea o
meglio se l’ex Primo Ministro britannico potrebbe incarnare quella figura di
leader in grado di permettere all’Ue di affrontare le sfide decisive che
l’attendono nei prossimi anni.

Ebbene qualche
indicazione in questo senso è giunta dai recenti discorsi pronunciati da Tony
Blair e da Nicolas Sarkozy al Consiglio nazionale dell’Ump, partito di
maggioranza del centro-destra francese ed erede della tradizione gollista
transalpina. Una premessa è d’obbligo e riguardala maniera con cui la stampa
italiana ha affrontato l’argomento, concentrandosi cioè totalmente sulla forma
(un leader di sinistra, laburista, che partecipa ad una riunione politica di
una formazione di centro-destra) e lasciando da parte il contenuto. Le
corrispondenze hanno finito per rendere caricaturale la situazione, spingendo
sul tema di Sarkozy che allarga l’ouverture anche oltre Manica o soffermandosi
sui malumori del Partito Socialista, indignato per la scelta di Tony Blair di
omaggiare il Presidente blin bling,
che «ostenta ricchezze, mentre il popolo fatica ad arrivare alla fine del mese»
(parole di apertura della campagna elettorale per le amministrative della
rediviva Giovanna d’Arco, in arte Ségolène Royal). Se si eccettua Andrea Romano
su «La Stampa» quasi nessun commentatore sembra essersi scomodato a leggere il
discorso di Tony Blair.

Ebbene, se si fossero
lette e ben interpretate le parole dell’ex premier britannico si sarebbe
compreso che, quasi senza menzionare il termine, il suo è stato un intervento
tutto teso a delineare una certa visione dell’Europa e tale visione trova molte
consonanze con quella di Nicolas Sarkozy. Insomma, senza esagerare, dai due
interventi pronunciati dal palco del Consiglio nazionale dell’Ump è emerso un
vero e proprio manifesto per l’Europa post 2009, pronunciato da due personalità
politiche che restano, e non bisogna dimenticarlo, appartenenti a due famiglie
politiche profondamente differenti.

Innanzitutto, Tony Blair
ha ribadito la sua convinzione che, ben lungi dall’essere superato, il clivage destra-sinistra esiste, ma al
suo interno ne opera uno ben più rilevante, quello tra forze del movimento, che
guardano verso l’avvenire, e forze della conservazione, che rivendicano un
passato oramai mitico quanto irreale. La conclusione che si trae da questa considerazione
all’apparenza semplice, ma in realtà fondamentale, concerne le forze di destra
così come quelle di sinistra: la scelta è tra “essere un monumento o essere%0D
movimento” (giocando sull’assonanza francese tra monument et mouvement). Nicolas Sarkozy ha scelto il movimento, i
laburisti inglesi altrettanto, così la Cdu di Merkel e così aveva scelto la Spd
di Schroeder, non quella attuale. Affinché l’Europa possa davvero ripartire è
necessario che sempre più partiti nazionali scelgano l’ottica del mutamento e
del rinnovamento.

Il secondo dato
fondamentale è quello del mantenimento dell’Europa in equilibrio tra le sue
esigenze di inserimento all’interno dei meccanismi della mondializzazione e
quelle di protezione dei suoi cittadini. Anche da questo punto di vista Blair e
Sarkozy procedono lungo la stessa linea, riprendendo e riaggiornando il portato
storico dell’Europa delle origini. Area di libero scambio, e dunque di trionfo
dei meccanismi del capitalismo più avanzato, ma anche zona di spiegamento
dell’economia sociale di mercato ben rappresentata dal modello renano. Anche su
questo punto Blair ha una sua ricetta fondamentale: guardare avanti significa
non crogiolarsi nell’idealismo passato e farsi portatori di un nuovo
pragmatismo. «Oggi la prosperità economica e la giustizia sociale marciano di
pari passo e non devono essere opposte l’una all’altra». Nel concreto ne deriva
anche la necessità di prendere atto che la stabilità è fondamentale, ma non un
dogma, soprattutto non un altare sul quale immolare la crescita, come spesso
sembrano pensare i dirigenti della Bce, anche in questo caso le affinità con i
discorsi di «governo economico» dell’Unione spesso avanzati da Sarkozy sono
numerose.

Il terzo ed ultimo punto
riguarda le sfide che attendono l’Unione: politica energetica, questione
Kosovo, ratifiche del Trattato semplificato, nell’immediato, politica di difesa
e gestione dei flussi migratori a medio termine. Per ciascuna di queste
iniziative le nuove istituzioni garantiscono strumenti idonei ad affrontarle.
Ciò che in realtà manca, vera e propria carenza della costruzione europea per
lo meno dall’uscita di scena di Kohl e Delors, è una leadership politica in
grado di raccogliere consensi attorno a queste sfide. Sarkozy su questo punto è
stato categorico «Non è il Trattato semplificato che riconcilierà gli europei
con l’Europa. Il Trattato semplificato è solo il sostrato istituzionale».
Definitivamente svanita l’ipotesi maldestra, in parte condivisa da tanto
euro-velleitarsimo di casa nostra, che predicava “fatte le istituzioni, fatta
l’Europa”, Sarkozy e Blair rivendicano il primato essenziale della leadership
politica.

Tony Blair potrebbe
quindi rappresentare una sintesi equilibrata tra le due forze politiche
maggioritarie all’interno del Parlamento europeo, quella popolare e quella
socialista, unendo il meglio di entrambe e soprattutto favorendo una
declinazione moderna del loro portato ideologico originario (da non trascurare
anche le radici anglicane della sua formazione politico-culturale e la sua
recente conversione alla fede cattolica). La sua leadership è autorevole, per
gli indubbi successi nazionali e per aver affrontato dieci anni di politica
internazionale tra i più impegnativi nella storia dell’Occidente moderno
(Kosovo, 11 settembre, Afghanistan, Guerra in Iraq, attentati di Madrid e
Londra).

Infine, porre alla guida
dell’Unione europea un inglese significherebbe definitivamente ricomprendere
nella costruzione europea la tradizione anglosassone, vera patria del
liberalismo moderno e di conseguenza annacquare quel centralismo giacobino
troppo spesso trionfante all’interno delle logiche dell’Unione. Ne deriverebbe
un altro effetto benefico: quello di avvicinare un po’ di più le due sponde
dell’Atlantico, ricordando ai troppi smemorati del Vecchio Continente le
affinità virtuose di quello spazio politico-culturale che è il mondo
euro-americano.

Blair è un’opportunità,
vedremo se l’Unione europea saprà coglierla.