Per Luttwak gli Stati Uniti di oggi sono come il vecchio Impero Bizantino
14 Febbraio 2010
Qualcuno dimentica che, coi suoi mille anni di vita, l’Impero Bizantino è tra le costruzioni politiche più longeve di tutti i tempi. Più dell’Impero Romano, da cui traeva origine, più dell’Impero Ottomano che dal XV secolo gli subentrò nel dominio del Mediterraneo orientale. Solo l’Egitto dei faraoni e la Cina imperiale, nelle pieghe spesso nebulose delle loro vicissitudini, possono vantare una storia più lunga.
Il segreto di tanta durevole stabilità è svelato con acume nell’ultimo libro di Edward Luttwak, La grande strategia dell’impero bizantino, edito da Rizzoli.
Al culmine di uno studio durato trent’anni, passato attraverso una ricognizione pressoché totale delle fonti e la consultazione di documenti preziosi e inediti, lo studioso americano, noto al grande pubblico come politologo ed esperto di strategia, ricostruisce puntualmente la parabola dell’Impero Romano d’Oriente, dalla nascita ufficiale nel IV secolo, per volontà di Teodosio, fino alla caduta di Costantinopoli, per mano dei Turchi, nel 1453. E rivaluta l’idea stessa di “bizantinismo”: non più un’attrazione irresistibile per il cavillo, un’attitudine mefistofelica alla doppiezza, una tendenza perenne all’inganno e al sotterfugio, ma piuttosto una brillante strategia politica basata sulla limitazione dello strumento militare, l’esaltazione della diplomazia e un uso spregiudicato dell’intelligence.
Al ricorso alla forza l’Impero d’Oriente preferì di gran lunga il canale diplomatico, cercando vantaggiosi compromessi sui tavoli di trattativa piuttosto che cruenti scontri nei campi di battaglia. Costituì un esercito di abili “professionisti”, mantenne sempre alta la tensione coi Paesi limitrofi, ma ricorse alla guerra solo quando aveva concrete possibilità di vittoria. Più spesso cercò di combattere i suoi nemici con altri nemici, applicando in chiave moderna il vecchio principio del “divide et impera”, sfruttando a proprio vantaggio le divisioni etniche, religiose e politiche nel fronte agguerrito degli invasori.
Per riuscirci, messi e ambasciatori, spie e agenti segreti furono incaricati dal governo di raccogliere dettagliati dossier sui popoli vicini in modo da conoscerne punti di forza e difetti, vizi e virtù da soppesare nello svolgimento delle relazioni diplomatiche. Sul fronte interno, poi, i governanti di Bisanzio praticarono una politica di integrazione tesa a valorizzare le differenze tra i sudditi e a sfruttare tutte le potenzialità di una società multietnica.
Grazie a questa condotta l’impero bizantino sopravvisse nel corso dei secoli bui, alle invasioni barbariche e all’espansionismo arabo, serbando intatto il cuore della civiltà greco-romana. Scansò i pericoli senza infamia e senza lode, senza sussulti né scossoni, senza successi travolgenti e al tempo stesso senza rovesci catastrofici. Paradossalmente, secondo Luttwak, furono i cugini dell’Occidente, gli eserciti della Quarta Crociata, a propiziarne la caduta. All’inizio del XIII secolo, spinti da beghe dinastiche e dall’allettante prospettiva di riunire la chiesa cattolica e quella ortodossa, misero a ferro e fuoco Costantinopoli e inflissero al delicato meccanismo difensivo dell’impero una ferita mortale.
Quando nel 1453 il sultano Maometto II entrò a Bisanzio l’impero era già un involucro senza vita.
Luttwak insiste molto su questa circostanza e non ne nasconde il valore emblematico, storicamente esemplare. Per tutto il libro, in effetti, si avverte la netta sensazione che, parlando del lontano impero bizantino, l’autore si riferisca sotto metafora agli Stati Uniti. E voglia, con un’opera di ricostruzione e interpretazione storiografica, dispensare consigli alla leadership americana, contrapporre alle virtù medicamentose (e illusorie?) della speranza un realismo radicato nella storia. Si tratta in un certo senso di una visione “al ribasso”, che riconduce la politica alle sue leggi intrinseche, che rinuncia agli slanci ideali o, più correttamente, li sconsiglia a chi non è in condizioni di sostenerli.
Non c’è salvezza senza realpolitik, sembra suggerire Luttwak, non c’è strategia vincente senza accortezza, scaltrezza e perfino cinismo, quel pizzico di “crudeltà” che sta nella natura delle cose. Nel suo affresco intelligente e documentato (per quanto, ovviamente, discutibile) l’impero bizantino diventa un modello di sopravvivenza in epoca di crisi, un esempio prezioso per un colosso che non aspira a espandersi ma, più modestamente, a scongiurare il roll back.