Per Matteucci la vera vittima del Sessantotto è stata la libertà
30 Marzo 2008
“Il filosofo è l’uomo che si risveglia e che parla”. Così
asseriva Maurice Merleau-Ponty nella sua lectio
magistralis che chiudeva una brillante carriera di cattedratico inquieto,
niente a che vedere con i tromboni ignoranti e nichilisti che affollano le aule
e i corridoi delle nostre “università”. Il filosofo è il concretissimo essere che
attraversa il suo tempo e, come Hegel, guarda l’orizzonte scrutando le pieghe
del presente: Napoleone è allora “lo spirito a cavallo”. Nicola Matteucci
(1926-2006) attraversò il suo tempo con questo scandaloso candore e scrisse
pagine memorabili di realismo intellettuale. Solo gli sciocchi colpevoli di
resistenza alla vita possono affermare senza vergogna alcuna che i filosofi
cosiffatti siano degli “intellettuali”. Certo, in questo clima ideologico
gonfiato da “esperti” e “liberali di sinistra” l’operazione non può che
diventare sistema diffuso di censura, anatema ideologico e interdetto
ideologico. Ma con Matteucci l’operazione diventa legittimazione di una
grandezza, niente da fare, soltanto le domande vere sul reale contano.
Matteucci, qualcosa di più di un filosofo della politica e qualcosa di diverso
da un liberale classico (polemizzava serratamene con Rothbard, il che è tutto
dire!), sentiva la realtà come un angosciante carico di domande rapprese alle
quali dare risposta, senza indulgere in banalità di scuola, nel luogocomunismo
da accademici privi di inquietudine.
“Sul Sessantotto”, questo saggio pubblicato da Rubbettino,
curato da Roberto Pertici e presentato da Gaetano Quagliariello (pp. 112, €
14,00), che raccoglie una serie di interventi di Matteucci, uno snodo
affascinante che si apre anche agli anni Settanta (perché, a casa nostra, il
‘68 ha segnato un decennio: fino al ‘77, con appendice tragica e tutta ancora da
studiare riguardante il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro), è di questa
pasta e apre orizzonti ulteriori di riflessione storica e teorica. Riflessioni
che si spingono oltre la teorizzazione posticcia e banalotta del liberalismo
cosiddetto “classico”, fino a raggiungere il tono e l’accento critici del
grande amico e sodale di quel tempo, Augusto Del Noce, la mente più imponente
dopo Gentile (e si tratta di un “dopo” meramente cronologico). Il filosofo,
allora attivissimo nel consesso della rivista “Il Mulino”, critica senza porsi
problemi di bon ton accademico il “libertinismo di massa” (siamo nel 1969. pp.
55-62) e, con questo atto ereticale, si pone al di fuori del liberalismo
vulgato, anche di quello solidamente etico di von Hayek. Domanda di fondo.
Perché l’uomo deve essere libero? Se il liberalismo presuppone che l’uomo
“debba” essere libero, a prescindere dalla sua natura e dunque dai suoi limiti
ontologici, siamo nel laisser-faire, laisser passer, il massimo della goduria
per chi vive tra i geroglifici della macroeconomia e le aule che ospitano i
convegni elitari, ma una realtà scadente e inadeguata per chi voglia seguire le
evoluzioni dell’umana esistenza senza passare accanto ai drammi etici con
l’indifferenza del marxista alla rovescia (cioè del libertario di turno).
Matteucci è filosofo di razza e perciò incalza: “Il problema è di natura
teoretica: proprio su questo piano (…) il dissenso con l’Hayek non può essere
che totale. Infatti, in tutto il suo saggio è sottinteso il concetto di libertà
come mera spontaneità, come abolizione di ogni limite, insomma il concetto di
libertà naturale, al quale inevitabilmente viene portato dalla più o meno
conscia riduzione della libertà all’agire economico, al vecchio laisser faire, laisser passer, mentre,
invece, presuppone un trascendimento del proprio essere naturale” (p.56). Con
questo affondo, Matteucci nega che la riduzione progressiva dell’autorità sia
la precondizione dell’allargamento dei pori della libertà. Dunque, nega che
questo liberalismo sia figlio della migliore cultura cristiana, anche di quella
rosminiana, di quella newmaniana, di Tocqueville, del cattolicesimo barocco.
Libertà ed autorità sono “due vasi comunicanti”: chi riduce lo spazio della
prima ammazza anche la seconda. Il Sessantotto ha fatto proprio questo e, con
esso, la libertà ha subito uno scacco. Secco ed irreversibile, avrebbe aggiunto
Del noce in un saggio formidabile dedicato appunto ad “una filosofia dei
giovani” (simili preoccupazioni le manifestava in quegli anni anche Ugo Spirito).
Da questa deriva, già integralmente nichilistica, cioè volta al rifiuto totale
di qualsiasi fondamento oggettivo e storico a tutto ciò che intenda porre
qualche ragionevole freno all’individualismo libertario (il tratto tipico anche
del cosiddetto “liberismo di sinistra” dei Giavazzi e degli Alesina), emerge la
“società permissiva”, il frutto di mezzo secolo di assenza di risposta alla
%0Aseguente domanda: “Perché infine deve darsi l’essere (cioè, l’auctoritas e la
forza della tradizione), anziché il nulla (cioè l’Ego stirneriano, l’individuo
che si autorealizza nell’assenza di freni, il produttore-consumatore
autoreferenziale)?”. Domanda prima leibniziana, poi schellinghiana, infine
heideggeriana. Il Sessantotto, quando risponde, risponde con un “no” all’autorità
e con un “sì” all’immanentismo libertario. Di qui la violenza nichilistica di
un’idea di società per la prima volta sradicata dall’autorevolezza, ancorché
dimidiata, dei padri, e dal sacrificio dei figli, impegnati nel rito di
passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta (cfr. Risé sulla figura del
Padre). Questa morfologia del disincanto nichilistico, imbevuto di engagement
movimentista, ha reso il “nuovo” una “moda” ed ha sottratto al vero dia-logo la
realtà delle cose, la verità delle cose, le soluzioni concrete di
riassestamento degli assetti culturali e formativi. La scuola italiana
contemporanea è figlia di questo vuoto e di questa violenza: un mix
devastantemente nichilistico.
D’altro canto, Matteucci, dopo aver intravisto il pericolo
nei luoghi universitari, comprende anche che il Sessantotto assimila ciò che la
tradizione occidentale aveva sempre separato o, perlomeno, inscritto in un
alveo critico: ad esempio, l’eros e la libertà. Ma ci troviamo sempre nel
dominio dell’equivoco ideologico, come annota il nostro filosofo: “La “moderna”
concezione della libertà come mera spontaneità, come possibilità per l’agire
istintivo dell’uomo, come soddisfazione individuale dei bisogni, è agli
antipodi della nostra recente tradizione di vivere civile (ci dimentichiamo che
siamo usciti da poco dai boschi) e con la genuina tradizione del moderno
liberalismo, quale può essere còlta muovendosi fra un Kant e un Tocqueville,
per indicare due pensatori fra loro profondamente lontani. (…) Si chiedeva libertà
per essere se stessi; ma essere se stessi voleva dire creare valori di
bellezza, di verità, di fede, non mera liberazione dell’istinto, il quale resta
il sottofondo tenebroso contro il quale ci affermiamo come uomini liberi o
liberati” (pp.60-61). Questo è il punto: la libertà è sempre una libertà prima
liberando, quindi liberata, sempre una realtà umana da liberare dal predominio
degli istinti. Ci vuole, dunque, un’ascesi ed una mistica della libertà, così
sembra profilare Matteucci, una sorta di trascendenza della libertà, che
permetta a quest’ultima di essere una “libertà per”, cioè una libertà
responsabile. Questa è una filosofia critica della falsa modernità, che si
suicida perdendo se stessa, cioè quel grumo anti-nichilistico e votato alla
ricerca del vero, del bello e del buono. E’, dunque, una filosofia dei valori
dalla quale, oggi, molte linee teoreticamente creative potrebbero essere
tracciate: dalla connessione tra la libertà responsabile e la valenza
ontologica del diritto naturale (Cfr. Joseph De Finance, Etica generale) alla ricostituzione di un’educazione liberale
umanistica (Leo Strauss, Educazione
liberale e responsabilità), con termine medio profilato da Isaiah Berlin,
che difende il %E2