Per Mazzini la libertà era solo un mezzo, non il fine del Risorgimento
25 Luglio 2010
di Luca Negri
Tutti coloro che cercano riparo dall’alluvione di retorica in arrivo per la celebrazione dei centocinquant’anni d’Unità italiana hanno già disponibile una nutrita bibliografia revisionista su quello che accadde durante il nostro Risorgimento. Nella loro libreria non dovrebbe però mancare il profilo del venerato padre della patria Mazzini tratteggiato da Giovanni Belardelli per “il Mulino” (nella preziosa collana “L’identità italiana” diretta da Ernesto Galli della Loggia).
Non che l’autore, docente di Storia del pensiero politico contemporaneo nell’Università di Perugia, abbia inteso collocarsi fra coloro che considerano “una iattura” il processo unitario, come precisa nella premessa. Nemmeno parte pregiudizialmente ostile nei confronti del fondatore di Giovine Italia e Giovine Europa. Ma il professore non può fare a meno di raccontarcelo per quello che era; tirando la somma di vita ed opere, a noi Mazzini pare un fascista ante litteram. Peggio ancora, un proto-stalinista.
Tanto per cominciare, il suo patriottismo ideologico, fanatico e d’origine meramente letteraria (un Alighieri incompreso e l’immancabile Foscolo) era nutrito da un’immagine pesantemente distorta del Paese. Anche a causa dell’ignoranza dovuta ai troppi anni d’esilio, aveva amplificato, meglio ancora, inventato di sana pianta (soprattutto al cospetto del generoso pubblico inglese) il malcontento popolare nella penisola. E non vi fu vero inganno da parte sua, ne era convinto.
In Mazzini, estremo figlio dell’epoca Romantica, i principi prevalevano sempre sui fatti, la fiducia nella volontà era assoluta e soprattutto non mancava la convinzione che i propri progetti corrispondessero “ad un disegno divino”. Le sue idee si erano imposte attraverso il culto di una personalità in posa da profeta inascoltato, sempre nerovestito in segno di lutto per l’oppressione del paese natio, preda di periodiche crisi di malinconia e “spleen intraducibile” (“il volto che giammai non rise” nel verso del mazziniano Carducci).
Con stile oracolare e linguaggio mistico aveva esportato la visione giacobina della politica come rigenerazione dell’uomo e la fiducia ottimistica nel progresso. La Patria, la Nazione, il Popolo diventavano così i dogmi di una vera e propria religione che aveva il compito storico di sostituire l’ormai superato Cattolicesimo. Secondo il pensatore spagnolo Donoso Cortés dietro un errore politico c’è sempre un errore teologico; a conferma di ciò, il Dio di Mazzini addirittura aveva predestinato l’Italia, la cui, liberazione era inscritta nei suoi disegni, ad essere il “detonatore di un grande sommovimento rivoluzionario nazionalista europeo”.
Tali onere ed onore derivavano dal fatto che il Belpaese doveva combattere direttamente contro i nemici principali della futura umanità: la Chiesa di Roma e l’Impero Austro-Ungarico. L’Italia liberata dal giogo straniero e petrino doveva poi essere Una ed indivisibile, giacché le soluzioni federaliste erano una vera peste a suo parere e l’unità era “legge fondamentale” del mondo fisico e di quello morale. Di conseguenza “la diversità di opinioni” non sarebbe stata permessa nella nuova Italia, come la libertà di insegnamento; la “dittatura” non avrebbe lasciato “spazio alle idee che fossero in contraddizione con l’unica verità”, quella di Stato. La libertà, in fondo, spiegava Mazzini, era da intendersi come mezzo, non certo come fine (era la Nazione, ricordiamo, il fine).
Acerrimo critico del grande Tocqueville, considerava la libertà individuale un dono del cristianesimo all’umanità ma dunque un retaggio del Medioevo, condannato a scomparire con l’accettazione di un potere che “non avrebbe dovuto temere di far valere tutta la sua autorità, al fine di rendere gli uomini migliori”. Per giunta il Nostro era assolutamente convinto del ruolo rivoluzionario delle élites, di “intellettuali virtuosi, mediatori fra Dio e popolo”, avanguardia rivoluzionaria incaricata di guidare le genti e renderle consapevoli della propria missione.
Una minoranza di italiani, di piccola nobiltà od alta borghesia, gli diede retta e fu tutto un ordire avventate insurrezioni quasi sempre fallite, fomentare cospirazioni e regicidi (Carlo Alberto, Napoleone III, Ferdinando II re delle Due Sicilie), preparare insomma la guerra purificatrice, dato che “l’unica Assemblea che valga è quella del popolo in armi”. Son queste le illusioni, accompagnate da un ossessivo culto del martirio, che portarono alla morte i fratelli Bandiera ed i trecento di Pisacane.
Ma non c’era troppo da piangere su quelle vite spezzate, Mazzini credeva infatti nella reincarnazione. Alla sua morte, nel 1872, era uno sconfitto: l’unificazione dello Stivale si era realizzata senza di lui ma attraverso le manovre dei Savoia e gli eserciti di Garibaldi. Ci pensarono i mazziniani invecchiati, moderati i furori giovanili e giunti al potere, Depretis, Crispi ed agguerriti massoni, a tramandare il culto del santo laico e ad introdurre le sue opere nelle scuole pubbliche in aperta lotta all’insegnamento cattolico.
Un’eredità che passerà agli interventisti del ’15, a Mussolini ed a Gentile come ai membri di “Giustizia e Libertà”. E prima di approdare al Partito Repubblicano di La Malfa, ai discorsi dell’ex capo dello Stato Ciampi ed alla fronda finiana in cerca di verginità politica, il verbo di Mazzini avrà trovato la sua contraddittoria apoteosi nel tragico biennio ’43-‘’45: quando sia i militi della Rsi che i partigiani “azionisti” rivendicavano di incarnare la Giovine Italia.