Per Montanelli la Costituzione era un ibrido imperfetto figlio dell’ideologia
05 Aprile 2009
Circa un mese fa, durante una conferenza sulle radici culturali del PdL, il senatore Gaetano Quagliariello tracciava l’identikit storico e politico del nuovo partito. Nel suo intervento, cavalcando a spron battuto sessant’anni di storia dell’Italia repubblicana, ne svelava vere e presunte ipocrisie e disegnava uno scenario in forte contrasto con quello tramandato dalla storiografia ufficiale. Poi, a sostegno della sua tesi, chiamava in causa Gaetano Salvemini e Indro Montanelli, non tanto come padri nobili del pensiero di centrodestra, ma piuttosto come maestri del disincanto verso la vulgata storica e le sue discutibili mitologie. A cominciare dalla cieca idolatria verso la Costituzione del 1948, definita dal senatore una “gigantesca operazione politica” trasformata nel tempo in un totem intoccabile.
Su questo tema, in particolare a Montanelli, l’analisi di Quagliariello e tutto l’impianto culturale del PdL pagano un debito evidente. Nelle pagine della sua poderosa "Storia d’Italia" e in vari altri scritti e interventi, infatti, l’indimenticato “maestro” del giornalismo italiano parla della Costituzione senza retorica, in termini che rappresentano un riferimento obbligato per qualunque disamina obiettiva della Carta. A scanso di equivoci, Montanelli elogia la Costituzione come il frutto di ingegni “quali forse l’Italia non ritrovò più in seguito” e le riconosce, in certe parti, valore e attualità. Ma allo stesso tempo, impietosamente, ne sottolinea i difetti, a cominciare da un processo formativo farraginoso e da un impianto istituzionale pesantemente condizionato dall’esperienza della dittatura.
Il testo della Costituzione fu elaborato dalla cosiddetta “Commissione dei Settantacinque” che raccolse e montò pezzi preparati da svariate sottocommissioni, prima del voto finale da parte dell’assemblea costituente. Il risultato è un prodotto ineguale, un mosaico di tasselli che non sempre collimano, un’opera di fine artigianato, indubbiamente preziosa ma grezza. Dal punto di vista istituzionale, poi, la Costituzione è figlia della paura di un ritorno alla dittatura fascista e del timore reciproco dei maggiori partiti , DC e Blocco del Popolo, preoccupati di “mutilare” il potere di controllo dell’avversario in caso di sconfitta alle imminenti elezioni politiche. Tanta apprensione si traduce in un modello fondato sulla debolezza dell’esecutivo e la forte centralità del parlamento, per nulla mitigata dai correttivi adottati in altre costituzioni europee e anzi aggravata dal bicameralismo perfetto e dal vasto istituto della riserva di legge. Nelle intenzioni dei costituenti la preminenza del parlamento avrebbe dovuto esaltare la sovranità popolare, e invece, nella pratica, ha aperto un varco sempre più ampio alla lottizzazione e alla partitocrazia.
Fin qui l’aspetto organizzativo. Ma la critica di Montanelli non si appunta solo sulla seconda parte della Carta, tradizionalmente oggetto di discussioni e riserve: anche la prima parte, quella relativa ai principi generali, ne è investita in pieno. Nell’iconografia classica la Costituzione del ’48 è rappresentata come un compromesso tra quattro grandi correnti di pensiero: liberalismo, democrazia, socialismo e cristianesimo sociale. Un compromesso tanto più mirabile in quanto non si limita a enunciare principi astratti, ma scende nel dettaglio fissando norme precettive e di immediata applicabilità. Un capolavoro, insomma: da non intaccare per evitare di deturparlo.
Montanelli ridimensiona drasticamente il quadro. Più che il compimento degli ideali risorgimentali, a suo dire, la Costituzione è un “ibrido ambiguo” di marxismo e cristianesimo, ideologie estranee al Risorgimento e ostili all’unità nazionale, in contrasto più o meno stridente col liberalismo. L’impronta marxista sarebbe evidente nei limiti e nella funzione sociale imposta alla proprietà privata, nella sistematica prevalenza degli interessi collettivi su quelli individuali, nella stessa idea di solidarietà, garantita dall’intervento statale piuttosto che dalla libera iniziativa dei cittadini; l’influenza del cristianesimo, invece, si coglierebbe nella “costituzionalizzazione” dei Patti Lateranensi e nel tono messianico, o nell’astrattezza ultramondana, di certe norme.
Nel complesso la Costituzione del ’48 sarebbe non lunga ma verbosa, intrisa di solennità ma incapace di entrare nell’aspetto pratico dei problemi; spesso animata da spirito di rinvio, tanto da demandare alla legge l’attuazione di molti principi; talvolta vaga, al punto di consentire interpretazioni assai diverse e la sopravvivenza di istituti vecchi, addirittura mutuati dalla dittatura.
Sul piano politico, per Montanelli il lavoro dei costituenti segna il trionfo del “ciellennismo”, del consociativismo antifascista, mai più ripetuto nella storia repubblicana e ormai superato dai tempi. Un trionfo effimero con un unico effetto duraturo: l’emarginazione di gran parte dei conservatori italiani, confluiti nel fascismo o confusi col regime, che doveva avere ripercussioni negative sul sentimento di generale condivisione delle regole costituzionali.
Quanto alla presunta intangibilità della Costituzione, più che il frutto delle sue virtù, essa sembra il riflesso di una certa inconcludenza italiana. Niente si porta mai a termine, e perciò, una volta tanto che una cosa si fa, accade di esaltarla a dismisura. Per carità, dovesse mai venir voglia di cambiarla… Chi dice che il tentativo avrebbe successo o anche solo che giungerebbe a compimento? Meglio lasciare le cose come stanno. Tanto, meglio di così non si può.
L’intangibilità acquisita dalla Costituzione è il sintomo del deterioramento della classe politica italiana (ritenuta dai suoi stessi esponenti incapace di mettere mano alla Carta senza provocare danni) e insieme del clima di sospetto che ancora regna tra i partiti. Per sessant’anni, e specie negli ultimi quindici, la carta del ’48 si è retta su una rara forma di schizofrenia politica: nessuno voleva assumersi la responsabilità di riformare e nessuno voleva lasciarla alla controparte. Il risultato, secondo Montanelli, è una Costituzione “vecchia e invecchiata male”, fondata su un modello sociale anacronistico e su un sistema politico troppo fragile e permeabile al malcostume.
Va da sé che non è tutto oro quel che luccica… Quella di Montanelli è pur sempre la visione di chi si sente escluso dalla genesi della Carta, forse estraneo al suo spirito e tuttavia, in un certo senso, “terzo” rispetto agli eventi, in posizione ideale per esprimere una valutazione serena. E’ una visione parziale (come quella degli idolatri) ma aiuta a fare giustizia di una Costituzione “storica” e per ciò stesso, necessariamente, imperfetta.