Per Netanyahu è l’ora delle scelte coraggiose

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Per Netanyahu è l’ora delle scelte coraggiose

01 Giugno 2010

Un alto diplomatico italiano sintetizza: “La flotta , qualunque cosa trasportasse,  avrebbe causato meno danni se fosse arrivata a Gaza di quanti ne ha causati fermarla con tanta imperizia”. Col senno del poi, è una opinione e condivisa anche in Israele, dove è ormai chiaro a tutti che nulla di buono verrà dal maldestro blitz di ieri. Sul banco degli imputati, è finito il ministro della Difesa Ehud Barak.

Le immagini mostrano gli uomini del commando, uno dei più preparati delle forze armate israeliane, calarsi sul ponte della nave ed essere immediatamente sopraffati da un manipolo di persone, armate di coltelli e bastoni. La stampa si chiede come mai gli strateghi dell’operazione abbiano sottovalutato la loro determinazione a resistere alla presa di controllo dell’imbarcazione. Eppure, era noto che sulla Marmora, la nave più “combattiva” della flottiglia, c’erano estremisti alla ricerca dello scontro. Le autorità israeliane li avevano bollati come terroristi.

Sarebbe però sbagliato, addossare sul ministro della Difesa tutta la responsabilità del fiasco. Il blocco imposto da Israele è stato già violato in passato, con esito diverso. Nel 2008, l’allora premier Olmert consentì a due navi di sbarcare a Gaza. Non incontrando alcuna resistenza da parte israeliana, la missione ebbe un ben modesto impatto mediatico. Lo scorso anno, di fronte ad un secondo tentativo di forzare il blocco, le autorità israeliane tennero una posizione volutamente ambigua. Alla fine le navi furono dirottate senza problemi nel porto di Ashdod. Questa volta invece, Israele ha chiarito che in nessun caso avrebbero consentito alla flotta di raggiungere Gaza. Una posizione rigida, che ha ridotto i margini di manovra e spianato la strada allo scontro.

Il nodo politico che il governo Netanyahu deve  affrontare ora è quello dell’embargo imposto alla Striscia di Gaza sotto controllo di Hamas. Fu deciso da Olmert all’indomani della presa del potere da parte di Hamas, nel 2007, e confermato più per forza di inerzia che per decisione ponderata dall’attuale governo. L’embargo in realtà ha fallito il suo principale obiettivo, quello di impedire il riarmo di Hamas, che prosegue grazie alla rete di tunnel, alcuni dei quali tanto spaziosi da poter essere percorsi da un’auto, scavati sotto il confine con l’Egitto. D’altro canto, soprattutto dopo l’offensiva militare del gennaio 2000, “Piombo fuso”, Israele è sotto crescente pressione da parte degli alleati europei e statunitense per alleggerire il blocco e consentire la ricostruzione della Striscia di Gaza. Anche la speranza che la pressione economica ammorbidisse le draconiane richieste avanzate da Hamas per la liberazione del soldato Gilad Shalit si è rivelata vana.

La malaugurata operazione di ieri ha costretto il  premier Netanyahu ad annullare l’incontro di riappacificazione col presidente Obama. Un prezzo politico molto pesante.  La Casa Bianca, in questa crisi, preoccupata di salvare il futuro dei “proximity talk”, i colloqui indiretti tra israeliani e palestinesi, ha evitato di girare il dito nella piaga. L’ambasciatore Usa all’Onu ha lavorato per mitigare la prevista condanna per lo spargimento di sangue. I rapporti  tra Washington e Gerusalemme restano però freddi. La Casa Bianca chiede ad Israele gesti, non parole, tra l’altro anche un sensibile allentamento dell’embargo a Gaza. Per Netanyahu gli esami non finiscono mai. 

E il tempo delle scelte coraggiose è scoccato davvero. Serve uno scatto di reni per invertire la tendenza al progressivo logoramento della rete di relazioni internazionali vitale per la sicurezza di  Israele. Il caso strategicamente più emblematico di questa deriva  è rappresentato dalla crisi con una Turchia ormai in veloce  marcia di avvicinamento all’arcinemico iraniano.