Per quegli elitari di Rep. non c’è niente di peggio de “l’uomo qualunque”

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Per quegli elitari di Rep. non c’è niente di peggio de “l’uomo qualunque”

20 Febbraio 2011

Al contrario, in società  che si ritengono contrassegnate da vizi antichi, da superstizioni, da uno scarso senso del ‘pubblico’ e bisognose di un’ampia bonifica spirituale,ovvero dell’intervento chirurgico dell’etica e del suo braccio secolare, la politica, ritirarsi dall’agora, vuol dire sottrarsi a un dovere, rinchiudersi nella privacy, rifiutarsi di collaborare con lo Spirito del Progresso, diventare responsabili degli ostacoli e dei ritardi sulla via del risanamento. Di qui il disprezzo irriducibile per l’uomo qualunque, si direbbe più ancora che per il ‘fascista’, in quanto il secondo almeno si mette in gioco ,quando non rischia la vita, per un aberrante progetto totalitario – v. il rapporto di Piero Gobetti con Curzio Malaparte – mentre il primo lascia fare agli altri, pronto a chinare la testa dinanzi al vincitore, chiunque esso sia.

Il ‘partecipazionismo’ azionista non va, però, confuso con  quello totalitario (fascista e comunista): a distinguerlo è il suo volontarismo etico. Il cittadino esemplare è quello ‘disinteressato’, che risponde alla chiamata del Dovere, per libera convinzione. Nel comunista, invece, e ancor più nel fascista, vi è, sì, un elemento volontario ma rapportato a un dato oggettivo: senza averlo scelto, si è membri di una ‘comunità di destino’ – la nazione – o si è inseriti in una divisione oggettiva del lavoro – la classe – che, da un lato, prescrivono in modo inequivocabile i doveri di ciascuno, dall’altro, allentano, per così dire, la ‘responsabilità individuale e con essa la valenza etica dell’agire (della liquidazione a freddo del nemico non sei responsabile tu ma lui che rappresenta oggettivamente un intralcio per la causa rivoluzionaria).

Nelle ideologie nere e rosse, non è l’etica che si fa politica ma la politica – e i suoi obiettivi – che si fa etica. E’ la collocazione naturale o sociale che prescrive il ‘che fare’, avendo di mira il perseguimento della potenza nazionale o il trionfo del proletariato, la classe che porrà fine  alla lotta di classe : la coscienza morale ,non condizionata se non dai ‘lumi’ e dal ‘buon cuore’, non ha nulla da dire  sulla ‘road map’ della Storia..Di qui, sia detto incidentalmente, le ricorrenti accuse di ‘astrattezza’ e di moralismo rivolte dall’intellighenzia comunista al Partito d’Azione: se nell’azionismo la morale è tutto, nello storicismo materialista la morale rischia di essere nulla: quel che importa, infatti, è che si scelga di assecondare il moto inarrestabile del progresso o, al contrario, si decida di  ‘giocare in proprio’, in virtù di sterili impulsi spirituali, che non porteranno a nulla.

Di qui, pure, la diversa attenzione prestata da azionisti e comunisti alle masse  tentate dalla sirena del ‘populismo’: per i comunisti, queste masse esprimono bisogni ‘inferiori’ma reali e, soprattutto, non trascurabili dal momento che in democrazia è il numero che conta; per gli azionisti costituiscono la riprova  inequivocabile dell’arretratezza del paese e della necessità della ricordata bonifica degli animi. La terza conseguenza dell’eticizzazione della politica è l’assenza, nella mentalità azionista, di una filosofia della democrazia liberale segnata dalla consapevolezza della relativa validità di tutti i programmi politici e da un sostanziale pragmatismo per il quale il mondo è pieno di dei – ce ne sono a destra e a sinistra – e se i valori restano, più o meno inalterati nel tempo,i modi e le forme per tradurli in leggi e in istituzioni, nonché la loro stessa disposizione gerarchica, possono variare di volta in volta, sicché non rimane quasi nulla, nelle transazioni umane, che sia immutabile, tranne, nella società aperta, i principi e le regole della convivenza civile.

Avendo fatto della politica l’ancella dell’etica ed essendosi arrestata alla fase della ‘laicizzazione’ della civitas humana medievale, la mentalità azionista non è riuscita a varcare   la soglia della modernità: ha perso il legame con la trascendenza ma non il senso dell’assolutezza dei valori e, pertanto, alla crociata religiosa non può che sostituire l’ambizioso progetto di  ’riforma intellettuale e morale’ degli Italiani, anch’esso una crociata ma laica. Ne discende la tendenza a elevare i programmi istituzionali, politici, economici, culturali di una sezione, più o meno estesa, della società nazionale, a valori incontrovertibili e a trasfigurare una particolare posizione politica in un dovere al quale non ci si può sottrarre– quanti non lo condividono vengono registrati nel Libro Nero dell’Umanità, diventano servi della reazione o pretoriani (inconsapevoli)della dittatura totalitaria.

Si prenda il nesso eguaglianza/libertà e il significato che gli vien dato dagli intellettuali del Partito d’Azione. Per citare l’amabilissimo Calogero: "L’uomo non dev’essere soltanto libero di parlare e di convincere: dev’essere anche libero di poter parlare e di poter convincere con una potenza d’azione non minore di quella di chiunque altro. Se uno squilibrio economico rende meno efficiente la sua propaganda, quello squilibrio va tolto di mezzo proprio per garantirgli il suo equo spazio di libertà. Egli dev’essere libero quanto sono liberi gli altri: la sua libertà non può essere che la giusta e uguale libertà. E deve poter entrare nella vita così come vi entrano gli altri: deve poter usare dei suoi beni non meno di quanto ne usa ogni altro uomo.

La sola libertà legittima è quella suddivisa giustamente, come la sola giustizia legittima è quella che dà a ognuno pari libertà. Sono parole che si potrebbero condividere in linea di massima qualora stiano a significare che l’uomo della strada  apprezza poco la libertà civile e politica se non ha un tetto e un lavoro e se il diritto di votare non si accompagna alla sicurezza sul proprio avvenire: al fondo di questo riconoscimento dei bisogni individuali, è innegabile, c’è un’esigenza etica più che rispettabile che  ci riporta a principi che tutti gli esseri umani ragionevoli dovrebbero riconoscere e fare propri.

Sennonché, nella mentalità azionista, l’inveramento dell’etica nella politica non tollera  mediazioni né ‘cauti esperimenti’ ,né ingegnerie gradualistiche di sorta:  coniugare eguaglianza e libertà è impossibile al di fuori di impegnative ‘riforme di struttura’, che comportano, tra le altre cose, un’economia a due settori, la ‘terza via’ tra capitalismo e socialismo, la condanna senza appello del mercato quale inteso dal capitalismo selvaggio e della pianificazione dall’alto quale praticata dal collettivismo burocratico.

Ne costituisce un esempio non poco significativo l’art. 3 della nostra Costituzione, per il quale "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. / È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese..".

Un articolo, si badi bene, ineccepibile sul piano delle ‘buone intenzioni’ manifestate dallo stato democratico nell’età delle masse, ma fortemente problematico se interpretato come la costituzionalizzazione dei ‘diritti sociali’, con la inevitabile retrocessione a sudditi ed espulsione metaforica dalla polis di quanti–pur  d’accordo, in certi momenti storici, su forme anche avanzate di legislazione sociale–vorrebbero che i principi costituzionali fossero ridotti al minimo necessario sì da conservare solo quelli sui quali c’è piena e inequivocabile unanimità di consensi ovvero si registra un idem sentire de re publica.

Alla luce dei rilievi sin qui svolti non meraviglia che la mentalità azionista si rifiuti di vedere nei programmi dei  partiti—di destra e di sinistra—altrettante  strategie diverse e usurabili per conseguire risultati in fondo apprezzati da tutti (libertà politica, benessere economico) ma assuma gli uni a incarnazioni del verbo democratico e gli altri a orpelli retorici che nascondono inconfessabili volontà di reazione (la destra eterna) o soluzioni monche del problema politico e sociale.(l’unilateralismo comunista).

Questi tre punti, al di là dell’apprezzamento sincero degli azionisti storici e dei loro padri spirituali (nel mio saggio sul ‘gramsciazionismo’, ho definito Piero Gobetti <una delle più alte coscienze morali del suo secolo), ci portano al cuore di una questione completamente rimossa–e pour cause  –da Ezio Mauro : la democrazia liberale  è compatibile con una ‘filosofia della storia’ che impone all’affaticato genere umano di andare sempre avanti e ritiene ogni arresto o passo indietro un ‘peccato contro lo Spirito’?

Nell’epoca del disincanto, non è più questione di leggi morali o immorali ma solo di  leggi <utili che vengono incontro ai bisogni e alle aspettative dei cittadini (sempre entro l’ordine costituzionale) o, al contrario, rendono più difficili le loro condizioni di vita. Al limite, i generosi sentimenti di una classe politica sollecita del bene pubblico potrebbero far vivere tutti peggio mentre le briglie sciolte date ai privati, unicamente intenti ad arricchirsi, potrebbero riversare su tutti le benedizioni della modernità.

La morale, in ogni caso, deve farsi da parte o, se si preferisce, restare al di sopra della politica. Ciò non impedisce, naturalmente, di giudicare ‘cattiva’ una legge approvata dal Parlamento  secondo le procedure previste nella carta costituzionale, ma solo di dare a quanti esternano la loro riprovazione morale il potere di ergersi a giudici e censori di coloro che l’hanno sottoscritta. Nella ‘democrazia dei moderni’ non ci si chiede se una legge è ‘buona’o ‘cattiva’, se è ‘giusta’ o ‘ingiusta’, ma solo se viola o no la Costituzione; la legge può essere buona e giusta per gli uni, cattiva e ingiusta per gli altri: a decidere è la maggioranza, che certo, può sbagliare ma appunto per questo i ‘giochi’ sono sempre aperti in modo da consentire sempre passi avanti..o passi indietro.

Tipico della mentalità azionista, invece, e proprio in ragione del suo coté moralistico, è la sovrapposizione dell’etica al diritto (analoga all’asservimento della politica all’etica) che affiderebbe volentieri ai giudici non solo il compito di applicare le leggi ai casi concreti ma, altresì, quello di ‘fare giustizia’, di rendere ‘migliore’ la società in cui si vive. In quest’ottica, una ‘cattiva’legge diventa un attentato rivolto non contro i singoli articoli ma contro lo ‘Spirito’ stesso della Costituzione, un oltraggio da  denunciare con la mobilitazione dei cittadini giusti e probi, con la raccolta di milioni di firme (che raramente diventano milioni di voti).

L’aristocrazia dello spirito legittima, in tal modo, una  democrazia partecipativa che si converte (spesso e volentieri) in  una perenne occupazione delle piazze da parte di quanti non vedono rispecchiati nelle leggi i loro modelli di ‘vita buona’. La ‘rebelion de las massas’, sulla quale cade l’aristocratico disprezzo del funzionario dell’Imperativo categorico, sempre pronto a denunciare la pericolosità delle   pulsioni populistiche, diventa, in tal caso, il segno della maturità di un popolo. Anche per le piazze vige la distinzione tra ‘buone’ e’cattive’!

Se nella filosofia della modernità è iscritta la consapevolezza che l’etica è senza verità, il ritenere che la propria morale sia quella ‘vera’- specchio cristallino di una elite sociale e politica ‘superiore’, per virtù e responsabilità civica – comporta la ‘restaurazione’ dello spirito premoderno definito dall’impegno a sublimare l’etica nella politica con l’annessa intolleranza degli eretici e degli ‘indifferenti’, di quanti sono allergici alle prediche di Girolamo Savonarola e non si commuovono alle sue parole

L’articolo di Ezio Mauro può considerarsi il ‘tipo ideale’ di questo neo-domenicanesmo laico, privo, peraltro, delle robuste intelaiature concettuali tomiste dell’antico. La forte ispirazione eticistica, che non concede spazio ai farabutti e ai ‘servi zelanti’, si converte in un’ortodossia per la quale non è neppure concepibile rimettere in discussione i cardini della sua political culture: l’antifascismo, il Risorgimento ‘senza eroi’, il civismo azionista. L’antifascismo, si cita con commossa adesione Vittorio Foa, è la vera ‘matrice’della repubblica. Una domanda forse un po’ ingenua: siamo tenuti tutti a pensarlo?

Qualcuno potrebbe ritenere che non è la democrazia repubblicana obbligata a presentare le sue credenziali all’antifascismo al fine di superare l’esame di ammissione nella polis ma, al contrario, è l’antifascismo obbligato a presentare le sue credenziali alla democrazia repubblicana e a dimostrare che nel regime mussoliniano combatteva l’erogazione della violenza e la fine delle libertà politiche – tratti tipici di ogni regime totalitario – non l’organizzazione del dominio di classe o l’autobiografia della nazione. Essere contrari alla ‘mistica antifascista’ – e fino al punto da concordare con Renzo De Felice, uno dei maggiori e spregiudicati storici della seconda metà del Novecento, quando proponeva di cancellare dalla Costituzione la norma che vietava la ricostituzione del partito fascista, – significa porsi al di fuori di ogni rispettabilità democratica? Giustificare la mobilitazione dei   giusti e dei puri contro i nuovi fascisti?

Trovarsi in pressoché completo disaccordo con la storiografia del Risorgimento fallito o tradito o incompiuto,così congeniale a Piero Gobetti , comprendere le ragioni che opponevano Cavour a Mazzini, rendere giustizia alla Destra e alla Sinistra storica per quel che di positivo i loro governi riuscirono a realizzare,in un breve arco di tempo, significa appiattirsi sulla nuova destra che cresce tra reazione di classe e crisi morale? E dovremmo considerare tutti come il più elevato esempio di‘civismo’ quello dato da  Ferruccio Parri, prima come effimero presidente del Consiglio, in seguito come direttore di ‘Astrolabio’e apologeta del sessantottismo?

Parri venne costretto alle dimissioni da uomini e partiti che lo vedevano prono al CLN e portatore di un antifascismo intransigente ed epuratore. Tra i suoi avversari non c’erano solo Guglielmo Giannini e l’Uomo Qualunque ma anche liberali come Benedetto Croce e Luigi Einaudi e c’era persino quel Mario Pannunzio, divenuto un’icona  per ‘Repubblica’ e il suo corteggio di intellettuali. Se oggi comprendiamo bene i motivi di quell’avversione liberale, è per desiderio di essere invitati ad Arcore? Portiamo acqua al mulino del PDL e contribuiamo alla durata del governo in carica?

Mauro si compiace nel citare il Bobbio che denuncia come la nuova equidistanza tra antifascismo e anticomunismo finisca spesso ormai per portare ad un’altra equidistanza ‘abominevole’:quella tra fascismo e antifascismo. Dire, quindi, che Pol Pot è indistinguibile da Hitler significa oltraggiare la Resistenza? E se qualcuno si spingesse ad affermare che le purghe di Stalin erano ben più ‘energiche’ e numerose dell’olio di ricino delle squadracce nere, dovremmo interdirgli di scrivere sui giornali, di tener cattedra, di presentarsi alle elezioni?

Mauro ironizza sul sacrilegio di coniugare il metodo e i valori liberali con la sinistra italiana, rifiutando l’anticomunismo ed è libero di farlo ma con quale diritto mette all’indice quanti continuano a ritenere, col vecchio Croce, un ircocervo la sintesi di giustizia e di libertà elaborata dal socialismo liberale e dal liberalsocialismo o a pensare, a ragione o a torto, che con John M. Keynes si apre la via verso la servitù mentre con Friedrich A. Hayek si resta nel porto sicuro della società aperta?

Un hayekiano convinto  può ancora considerarsi un avversario politico legittimo e rispettabile se, critica aspetti rilevanti della Costituzione italiana,  nata dalla lotta antifascista e dallo spirito della Resistenza e sintesi di quanto di meglio abbiano prodotto – in fatto di etica pubblica, di garanzie della libertà, di istituzioni democratiche – le dottrine cattoliche, quelle liberali e quelle marxiste? Si ripresenta il quesito: liberalismo e democrazia sono cose buone perché – e nella misura in cui – trovano posto nella carta costituzionale o è la carta costituzionale degna di apprezzamento solo laaddove riconosce i diritti individuali e le ‘garanzie della libertà’ – il che significa che può essere cambiata anche radicalmente negli articoli in cui quel riconoscimento diviene incerto e ambiguo?

Si concedano pure a ‘Micromega’ a’Repubblica, al ‘Fatto quotidiano’ quella rettitudine e quella buona fede che essi non sono disposti a concedere né agli avversari né agli ‘equidistanti’: resta il dato inoppugnabile di uno stile di pensiero destinato a rimanere lontano anni luce dalla democrazia liberale dei paesi anglosassoni dove anche le riforme sociali più ardite non vengono presentate come commi della ‘Critica della ragion pratica’ ma come misure che, qualora si rivelassero inefficaci, potrebbero indurre molti cittadini ed elettori a‘rimettere  indietro l’orologio della storia’, senza scandalo per nessuno!