Per ridurre il prezzo della benzina serve una politica liberale

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Per ridurre il prezzo della benzina serve una politica liberale

10 Agosto 2007

L’annuncio che Vincenzo Visco sta studiando una riduzione
delle imposte – sia pure solo sui carburanti, e soltanto nei periodi di
tensione sui prezzi – ha dell’incredibile. L’uomo simbolo dello
Stato-tassatore, implicitamente, riconosce che vi sono casi in cui il prelievo
fiscale è oggettivamente eccessivo. Di tali casi, quello delle tasse sulla
benzina è forse il più lampante. Giudicate, secondo un sondaggio di
Consumatori.it, i tributi più odiati dagli italiane, esse colpiscono non solo
il diritto alla mobilità, ma anche quella che, in un paese lungo, stretto e
montuoso come il nostro, è una necessità pratica: spostarsi, in Italia, vuol
dire necessariamente spostarsi in macchina.

Sebbene, dunque, le parole di Visco costituiscano la prova
provata che la tassazione sui carburanti sia insostenibile, esse rischiano di
enfatizzare un aspetto tutto sommato secondario. Il problema vero, infatti, non
è la variabilità dei prezzi – che anzi è essenziale al buon funzionamento del
mercato, poiché essa informa i consumatori sulla scarsità relativa dei prodotti
petroliferi e li spinge al consumo oppure al risparmio – ma il loro livello.
Quella deriva da fattori economici, che devono essere lasciati liberi di
fluttuare se non si vogliono incentivare comportamenti sbagliati; questo
dipende soprattutto da fattori politici. Cioè, da tasse: ai prezzi attuali,
circa il 58 per cento del prezzo della benzina e il 52 per cento del gasolio
sono imposte. Al danno segue la beffa: mentre in paesi più civili del nostro,
come gli Stati Uniti, il gettito delle imposte sui carburanti deve essere
utilizzato a vantaggio degli automobilisti (per esempio nella costruzione o
manutenzione delle strade), in Italia esso finisce nel calderone della
fiscalità generale.

Una frequente obiezione è che i prezzi italiani sono
superiori alla media Ue, mentre il prelievo fiscale è in linea con quello degli
altri grandi paesi europei, quindi deve esserci un problema di collusione tra
le compagnie petrolifere. Questa accusa commette un duplice errore. Da un lato,
se è vero che le accise italiane assomigliano a quelle europee, è altrettanto
vero che i redditi degli italiani sono inferiori: quindi, in proporzione, la
tassa italiana sulla mobilità supera abbondantemente quelle europee. D’altro
canto, il differenziale tra i prezzi industriali italiani ed europei dipende
soprattutto dalla morfologia del nostro paese e dalle rilevanti inefficienze
della rete di distribuzione, oltre che da alcune nostre peculiarità
comportamentali (banalmente: gli italiani preferiscono pagare un po’ di più ed
essere serviti, mentre gli europei prediligono il self service). Le rigidità
nella rete di distribuzione possono essere rimosse solo operando una
liberalizzazione a 360 gradi: eliminando, cioè, tutti i vincoli agli orari e ai
turni (i benzinai italiani sono quelli che lavorano per meno ore in
tutt’Europa), rimuovendo gli ostacoli all’apertura di nuovi impianti o alle
innovazioni nel mix merceologico, e insomma concedendo alle stazioni di
rifornimento maggiore flessibilità.

Le compagnie petrolifere sono un bersaglio abbastanza facile
per una campagna ferragostana, ma – direbbe don Camillo – se si vuole risolvere
il problema bisogna affrontare il problema, non buttarla in politica.