Per rinnovare il poliziesco torniamo alla Sicilia problematica di Sciascia

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Per rinnovare il poliziesco torniamo alla Sicilia problematica di Sciascia

27 Settembre 2009

In un piccolo libro uscito di recente, “Il giallo siciliano”(Kronomedia-Edizioni e Comunicazione) scritto da una giovane ricercatrice catanese, Daniela Privitera, si cerca di fissare nel magma del boom del poliziesco nostrano, alcune coordinate  che spieghino la specificità delle fiction isolane di genere. Naturalmente  il punto d’avvio non può che chiamarsi Leonardo Sciascia.

In effetti il romanziere di Raccalmuto ha spiegato in più occasioni il suo interesse verso la scrittura di genere pur avendone anche da subito, in un certo senso, preso le distanze. In proposito la Privitera scrive: “… la peculiarità del giallo siciliano da Sciascia in poi, è l’assenza di qualunque ipotesi regolativa nella ricerca della verità”, che tende invece, “a problematizzarsi e ad incrementare le illimitate possibilità gnoseologiche”.

Qualche pagina dopo, il medesimo enunciato, è specificato ulteriormente e in qualche maniere reso canone. Se, infatti, scrive l’autrice, “si esclude qualche isolata eccezione, si scoprirà che il giallo siculo di poliziesco spesso conserva soltanto la tecnica perché la coscienza” e lo sguardo dell’investigatore si situano “sempre in una dimensione labirintica che scavalca le false verità del mondo e si relaziona con l’oltre”.

Un giallo, quasi un anti giallo. Un romanzo di genere che si trasforma in un qualcosa d’altro. Ma non in corso d’opera,  già nei presupposti. Difficile in effetti immaginare che un autore isolano resti indifferente a quel pirandellismo così “intrinseco” al paesaggio letterario locale, e riesca a non specchiarsi nell’idea di una vita “che è teatro sul quale però non cala mai il sipario”. Insomma una grande tentazione alla presa di distanza dalla realtà più immediata e tangibile, accanto a una forte propensione a inseguire le sirene del complicato, al limite del capriccio.

Il risultato è una sorta di mutevolezza permanente. E un lasciarsi aperte all’incirca ogni chance piuttosto che seguire i codici, più o meno rigidi, propri di una scrittura di genere. Al dunque: ripetere Sciascia, oltre lo stesso Sciascia. Un approccio che se in uno scrittore raffinato e cerebrale come l’autore de “Il giorno della civetta”, suscita  più di una perplessità nei suoi eredi e/o epigoni.

Peraltro lo sciascismo è moneta quasi unica fra le patrie lettere isolane. Il punto di riferimento ineludibile, una qualcosa che si respira nell’aria, permea l’ambiente, condiziona opinioni e modi di essere. E’ una condizione questa dagli esiti piuttosto paradossali. Stiamo parlando di letteratura spesso d’alto contenuto “civile”, dove gli scrittori (sulla scia del maestro, Sciascia, sempre “civilissimo” narratore) intrattengono commerci con la materia delle proprie narrazioni singolari quando non “labirintici”.

La Sicilia descritta in moltissime fiction è terribile, quanto, in fondo, ingiudicabile, se non irredimibile. E’ situazione troppo complessa e troppo sperta per venirne a capo. In un certo senso un unicum, rispetto a cui non si può che percepire un sentimenti di paralisi e di impotenza. Il medesimo blocco dell’intelligenza e della volontà che spesso provoca un osservazione disincantata delle dinamiche della Sicilia  pubblica, di un ieri recente e di un domani non troppo lontano.