Per rispettare davvero la fede degli altri bisogna ‘riconoscere’ la propria
17 Settembre 2012
Gli effetti mondiali del film antislamico Innocence of Muslims, un prodotto di gestazione oscura coperta da nomi che sembrano pseudonimi (v. il servizio di Nissenbaum, Oberman e Orden, sul Wall Street Journal del 13 settembre), conducono commentatori e opinione pubblica a reazioni che avverto come inadeguate, anzitutto illogiche, oggi come nella lontana crisi delle vignette. Anche nelle culture giuridiche che tutelano la ‘libertà d’espressione’ la questione del vilipendio di una religione esiste ed è fondata, anche quando il giurista ne misconosce la gravità. Che il ‘regista’ sostenga di aver prodotto un film ‘politico, non religioso’ rivela una malizia che si maschera di un’ignoranza poco plausibile; nessuno ignora che la distinzione politica/religione, già complessa nel Cristianesimo, è impraticabile nell’Islam. Solo nei monoteismi secolarizzati la ‘religione’ coincide col mero privato.
Sul nodo del rispetto e del vilipendio delle religioni, intese in senso proprio, opera però, nello spazio pubblico occidentale, una triangolazione tra i poli: laicità, chiesa/cristianesimo, e comunità non-cristiane (le musulmane, in particolare), di cui ho già scritto. A seconda delle congiunture e delle opportunità, gli argomenti di laicità, branditi da questa o quella istanza (opinione pubblica, giudici, legislatore), si schierano ora con l’islam contro il ‘privilegio’ dell’eredità cristiana (cattolica), ora contro l’islam in difesa dei valori occidentali (le libertà) e, talora, anche dei valori cristiani. In questa strategia dei ‘due forni’ il polo della laicità passa, nei confronti delle comunità musulmane, da un molto ‘concedere’ ad un molto negare senza distinguere chiaramente, non tanto tra islam moderato e islam radicale (che è distinzione retorica, di superficie: ‘radicale’ non significa terroristico; tra radicale e moderato c’è osmosi), ma tra fattispecie di azione, diciamo pure di reato. Giudicare dei comportamenti effettivi secondo fattispecie ben delineate lo vuole, e lo permette, la civiltà giuridica. Disordina invece la nostra capacità di analisi invocare la ‘libertà di espressione’, senza determinazioni, ora per assicurarla al soggetto musulmano ora per proteggerla da lui, dunque ‘scriteriatamente’.
Proprio su queste basi l’opinione pubblica viene spinta a considerare dello stesso ordine, cioè assurdità e reati, sia i comportamenti punitivi del capofamiglia musulmano nei confronti delle proprie figlie, sia le reazioni del mondo musulmano (quelle difese dal presidente Morsi, ad esempio) al pubblico vilipendio portato all’Islam da un film, da una vignetta. Anche il notista qualificato, a sinistra o a destra, sposa nella congiuntura l’opinione del regista del filmaccio in questione: l’Islam è una cultura dell’odio. Ora, non si tratta tanto di prendere atto che, per il musulmano non secolarizzato, la gerarchia di gravità tra reati è spesso inversa a quella prevista dalle nostre leggi. Si tratta di tener ferma la gravità in sé del vilipendio alla Religione, riconosciuta come reato fino a ieri anche negli ordinamenti occidentali, e di far valere, qui sí, nel nostro giudizio la ponderazione della variabile culturale.
Osservo spesso che ciò che sappiamo proteggere, nella ostentata interculturalità di scuola e amministrazioni pubbliche e chiese, anche, è l’innocua diversità; la vera, dura, diversità ci trova impreparati e ostili. Così la cultura costituzionalistica ha voluto decenni fa un declassamento del reato di vilipendio alla religione cattolica per equipararlo a quello, blandamente sanzionato, portato ad altri credi (quali che fossero). Questo apparente atto di giustizia, che potrà essere apparso favorevole alle altre confessioni/religioni, conduce invece alla banalizzazione dell’intero fenomeno del vilipendio alla Religione. Un grave indebolimento della protezione della realtà sociale delle Tradizioni religiose radicate, costituenti cultura. Un provvedimento di astratto costituzionalismo, contro Realtà; tipico atto di un ‘illuminismo’ tra utopizzante ed eversivo. Non sorprendiamoci che conseguenza ne possano essere l’ignoranza e il dispregio, nella certezza dell’impunità, anzi nel ‘diritto’ all’impunità.
Una prassi collettiva che tende a far scomparire il Presepio, la stessa menzione di Gesù, dalle scuole elementari e, contemporaneamente, difende la libertà di espressione di chi irride l’Islam in forme incolte, è lo specchio del disordine occidentale. Pronti, ora, a sacrificare la nostra identità sostanziale, credendo di ‘andare incontro’ all’Altro, per difendere subito dopo una incontrollata e vuota libertà di espressione ‘contro’ ciò che l’Altro è sostanzialmente, un uomo fatto cultura nella fede. Nel suo complesso la prassi dell’Occidente in tema di relazioni interculturali non è quella del difficile Riconoscimento delle diversità, ma quella della cessione all’Altro di spazi spirituali e pubblici che le élites laiche dell’Occidente suggeriscono di gettare o regalare, come i vestiti usati e i vecchi mobili.
Questa prassi irrazionale (non intendere ma concedere) rende difficile capire quando la polarità laica sbaglia nei confronti dell’Altro; un Altro che in molti casi è, per quella laicità, la stessa tradizione cristiana. Concedere una moschea comunque e ovunque, con un facile richiamo ai diritti – ma, in sostanza, per combattere i ‘privilegi’ della Chiesa cattolica – e legittimare poi chi proietterà a pochi passi Innocence of Muslims: mi rappresento così la politica interculturale immersa nella retorica delle ‘libertà’.
Il punto è che, per rispettare sul serio, e non per opportunità di corto respiro, la fede degli altri si deve, anzitutto, ‘riconoscere’ la propria. Non offenderà, volontariamente o a vanvera, la fede di un musulmano chi sarà in grado di capire quanto vale e quanto spesso è offesa (deliberatamente e senza rischi) la Tradizione cristiana, che è la nostra.