Per Sartori la democrazia ha un solo nemico: “l’iperpresidenzialismo”

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Per Sartori la democrazia ha un solo nemico: “l’iperpresidenzialismo”

27 Febbraio 2012

E’ sempre difficile giudicare pacatamente le prese di posizione di Giovanni Sartori sull’assetto politico-istituzionale italiano. Infatti da decenni ormai – più o meno da quando è iniziata in Italia l’epoca della democrazia bipolare – l’insigne scienziato politico si è avviluppato in un circolo vizioso di rivalsa e rancore verso la classe politica nel suo complesso: rea evidentemente, ai suoi occhi, di non dare ascolto alle sue infallibili ricette per costruire una democrazia ben funzionante.

Così, lo studioso che negli anni della prima Repubblica aveva suggerito un’evoluzione del sistema in senso maggioritario, con un occhio particolare al modello francese, dall’inizio della “seconda” non ha fatto altro che rovesciare la sua condanna, nutrita di feroce sarcasmo, sulla democrazia dell’alternanza così come si è realizzata a partire dalla svolta maggioritaria del 1993/94, da lui considerata un orribile mostro populista e demagogico senza eguali nel mondo occidentale (incarnata al massimo grado, ca va sans dire, dal “mostro” di Arcore). In alternativa alla quale egli ha suggerito volta a volta, per riportarla sulla “retta via”, rimedi non sempre coerenti tra loro, ma accomunati dalla sicumera con cui venivano proposti (o meglio imposti) come uniche soluzioni razionali, e dal disprezzo sempre mostrato dal loro autore verso chiunque la pensasse diversamente da lui (o meglio, diversamente da quello che lui in quel momento pensava).

Comunque, il tratto comune nelle posizioni di Sartori su questo tema sta nel rifiuto di un assetto normativo che connetta direttamente le elezioni con l’investitura di una compagine di governo, e men che meno di un leader di governo. Un rifiuto più che legittimo, e che può essere motivato in vario modo: ma che implica una presa di distanza dal filone principale della democrazia liberale occidentale, tanto anglosassone quanto europeo-continentale, in cui tale connessione, per prescrizione normativa o per prassi consolidata, è un dato consolidato.

Sartori giustifica questa esclusione con l’argomentazione che in altri paesi (nel presidenzialismo statunitense in particolare) esistono contrappesi istituzionali e divisioni di competenze che scongiurano l’eccessivo accentramento di potere nelle mani del governo, mentre in Italia questo non avverrebbe. Ma l’esperienza della “seconda Repubblica”, in verità, sembrerebbe dimostrare il contrario. Che, cioè, anche esecutivi inequivocabilmente investiti di autorità dal voto elettorale, e dotati di amplissime maggioranze, trovano regolarmente enormi ostacoli nella realizzazione della propria azione di governo ad opera tanto di un parlamento sempre frammentato e riottoso, quanto di poteri e soggetti esterni (il Capo dello Stato, la Corte costituzionale, varie sedi giurisdizionali, sindacati, associazioni di categoria). Tanto è vero che proprio dalla tendenza ripetuta alla paralisi e all’impotenza dei governi, a maggior ragione al cospetto di una crisi economico-finanziaria internazionale gravissima come quella che il paese sta attraversando, e per opera di un potere non legato all’investitura elettorale – quello del Presidente della Repubblica, appunto – si è giunti alla formazione di un esecutivo tecnico sostanzialmente “subìto” dal parlamento, e dotato di una amplissima libertà di azione, che nessuna maggioranza propriamente politica ha potuto precedentemente ottenere.

Ciò nonostante, ora che le forze politiche tornano a discutere (cautamente) di riforme istituzionali ed elettorali – ed in particolare di possibili meccanismi per consolidare i poteri di governo nella fase “ordinaria” della nostra dialettica democratica – Sartori scende in campo per ammonire severamente contro il “pericolo” di attribuire deleghe eccessivamente ampie alle maggioranze risultanti dai pronunciamenti elettorali.

Nell’ennesimo suo tonitruante editoriale in prima pagina sul Corriere della Sera (Presidenzialismo parlamentare, domenica 26 febbraio), il politologo ammette, almeno, che in Italia esiste ancora il problema di un “governo troppo debole”, derivato da una costituzione parlamentare “pura”, manifestatosi con maggiore evidenza proprio con la fine degli eqiulibri della prima Repubblica e dell’egemonia democristiana. Ma ritiene che gli unici plausibili correttivi a tale tendenza siano il meccanismo della sfiducia costruttiva e la facoltà, per il premier, di sostituire i ministri. Mentre condanna senza appello le proposte di altri studiosi (tra cui egli menziona esplicitamente Angelo Panebianco) per rafforzare più decisamente l’autorità del capo del governo.

A suo avviso, infatti, qualsiasi misura che “blindi” un esecutivo risultante dalla volontà degli elettori rappresenterebbe in Italia un “potere presidenziale diretto e pressoché incontrollato (molto più forte del presidenzialismo americano, perché non sarebbe intralciato dalla divisione dei poteri tra esecutivo e legislativo)”, dunque potenzisalmente autoritario.

Per questo, Sartori ritiene che un consolidamento dell’esecutivo sia plausibile soltanto se si salvaguarda la possibilità che una maggioranza si costruisca non nelle urne ma dopo le elezioni in base a trattative tra le forze presenti in parlamento, e che lo stesso parlamento sfiduci il governo in carica sostituendolo con un altro esecutivo, magari con una maggioranza diversa.

Si tratta di una tesi tipica di quanti rifiutano di identificare la democrazia con il meccanismo dell’alternanza, e preferiscono un sistema politico “consensuale”, centrista o consociativo. Sartori non ammette, però, di essere un nostalgico dei bei vecchi tempi della prima Repubblica. Egli sostiene una tesi più ambigua: quella secondo cui la causa della crisi del bipolarismo, piuttosto che nella mancanza di rafforzamenti normativi del legame elettori/governo, risiede “nella frammentazione/polverizzazione del sistema partitico”. Ma, si potrebbe obiettare, da cosa mai dipende questa polverizzazione, se non dal fatto che nel sistema istituzionale italiano manca qualsiasi limitazione alla variabilità delle maggioranze in parlamento, senza il vincolo del rispetto del mandato elettorale né lo spettro dello scioglimento anticipato delle Camere?

Preso dalla foga della sua “missione” di difendere l’arbitrio dei parlamenti contro i “cattivi” e antidemocratici capi del governo, Sartori etichetta come una “pericolosa birbonata” l’indicazione del candidato premier sulla scheda elettorale. E liquida come una “ultima trovata” degli “iperpresidenzialisti” nostrani la proposta di attribuire al presidente del Consiglio la facoltà, appunto, di sciogliere le Camere qualora venga meno la coesione della sua maggioranza: proposta che sarebbe, per lui, “inaccettabile, visto che darebbe al premier un potere sui parlamentari che è davvero uno strapotere”. Non sia mai! 

Peccato per il politologo fiorentino che quella facoltà, la dissolution clause, sia storicamente uno dei pilastri fondamentali nell’edificio della democrazia parlamentare inglese. La quale non sembra essere, così a occhio, un presidenzialismo autoritario, e nella quale proprio grazie alla “spada di Damocle” delle possibili elezioni anticipate viene assicurato da secoli un sensibile grado di stabilità e facoltà d’azione degli esecutivi: con notevole soddisfazione – a quanto se ne sa – dei governati.

Forse Sartori ritiene che nel sistema parlamentare britannico esistano contrappesi tra i poteri che mancano nella Costituzione italiana? E quali?    Forse la rigida divisione dei poteri tra legislativo ed esecutivo che è propria del sistema statunitense? si direbbe proprio di no, nel paese in cui, secondo la celebre definizione di William Blackstone, il parlamento “può fare qualsiasi cosa, tranne che trasformare l’uomo in donna” (e oggi, in tempi di ultra-politically correct, può magari fare persino quello!). Forse l’indipendenza della magistratura e della giurisdizione? Ma in Italia essa è ancora più rigida, tanto che i pasdaran del giustizialismo fanno barricate contro qualsiasi modifica costituzionale al riguardo. O forse il potere della Corona, notoriamente costretta da convenzioni che ne limitano al massimo l’influsso sulle dinamiche politiche, a differenza di quanto avviene per i poteri d’intervento indeterminati (e quindi talvolta, come di questi tempi, interpretati in senso amplissimo) del nostro Capo dello Stato?

Ma si sa, al cuore non si comanda. E men che meno si può comandare al cuore di un politologo accecato dai preconcetti, deciso a negare anche l’evidenza pur di tenere il punto, e costringere il mondo ad uniformarsi ad un suo indiscutibile assioma.