Per un Abruzzo multietnico ma non multiculturale
08 Febbraio 2011
La popolazione abruzzese? Invecchia molto, cresce poco e, soprattutto, diventa sempre meno italiana. Il tasso di natalità della regione, infatti, è uno dei più bassi d’Italia. E se ha fatto segnare un leggero rialzo rispetto allo scorso anno è solo grazie all’apporto delle donne di altri Paesi. Tradotto in termini demografici questo significa che in Abruzzo gli stranieri sono in media più giovani, generano di più e in età più bassa, contribuendo in maniera decisiva all’aumento della natalità: quasi 16 bambini su cento nel 2010 sono nati da madre straniera.
Dove porta questa analisi? A prendere atto che mentre diminuisce il numero di residenti italiani, aumenta quello degli stranieri: rispettivamente -0,2% contro un bel 5,9%. Culture differenti, dunque, che vivono e vivranno una stessa quotidianità. Che si arricchiranno a vicenda, scambiandosi tradizioni, abitudini, modi di pensare, valori. E pazienza se in nome di una legittima “diversità” le regole varranno per qualcuno ma non per tutti. Guai, infatti, a storcere il naso. Perché non rendersi conto che la convivenza fra uomini, etnie, culture e religioni diverse, al giorno d’oggi è la normalità, ci trasforma in persone retrograde e insensibili, per non ricorrere all’impronunciabile “razzista”.
Qualche dubbio, però, che al di fuori delle calde e accoglienti mura domestiche dove vengono pronunciati questi discorsi le cose funzionino diversamente, credo sia legittimo. Perché il più delle volte non è altro che una ipocrisia buonista quella che si nasconde dietro la difesa ad oltranza del multietnico e del multiculturalismo. Visto che il più delle volte chi l’ha pronunciata è la stessa persona che quando incontra un ragazzo di colore su una strada isolata ha l’impulso di cambiare marciapiede.
Questa è cautela e non rispetto. E spesso dietro l’accettazione c’è la rassegnazione e non l’integrazione. Stiamo attenti a non cadere nella trappola della tolleranza passiva che è falsa integrazione, perché non fa altro che imbellettare una divisione e una separazione che di fatto restano tali. Basta avere il coraggio di guardare con obiettività le nostre città. Di girare per le strade. Ed ecco che scopriremo che ogni centro urbano, anche il più piccolo, ormai ha i suoi quartieri-ghetto, dove gli stranieri vivono una propria realtà completamente staccata se non conflittuale, con la cultura che li circonda.
Eppure il principio della convivenza, pacifica e rispettosa, è scritto nel nostro dna, quello di uno stato laico, che proprio per questo è una forma istituzionale superiore alle altre. A scricchiolare, infatti, non è questo principio, ma l’interpretazione che se ne è fatta, ovvero quella dottrina del multiculturalismo che non ha prodotto altro che separati in casa. E se ad aprire questa riflessione hanno cominciato prima la cancelliera tedesca Angela Merkel e poi il premier britannico David Cameron, forse è il caso di interrogarci anche nel nostro Paese, nella nostra regione, nelle nostre città.
Il mito di una grande società unica si sta rivelando un’utopia. Non si può mantenere un atteggiamento neutrale davanti a valori differenti. La multiculturalità è una ricchezza, se gestita e ordinata. Il che si traduce in pari diritti ma anche pari doveri. Cameron lo chiama “liberalismo muscolare” e significa che le porte sono aperte a tutti gli immigrati, a patto che siano disposti al rispetto delle regole del paese ospitante. Un nuovo equilibrio, fondato sulla severità e non sull’accondiscenza ad ogni costo. Così si garantiscono la vera integrazione e soprattutto la sicurezza e lo sviluppo ordinato e positivo di una comunità.
Non si può accettare che gruppi di immigrati si costituiscano in comunità autoreferenziali, chiuse, estranee alle norme e ai codici di comportamento vigenti. Il risultato è il ghetto, dove l’incomprensione, la solitudine, l’esclusione diventano terreno fertile di devianze e violenza. Un danno grave, sia per la comunità ospitante che per quella ospite.
I dati riportati all’inizio rappresentano un monito preciso, anche l’Abruzzo sta diventando sempre più una regione multietnica. Non facciamoci trovare impreparati, non cadiamo nella trappola della tolleranza passiva, perché la coesistenza di diverse culture può rappresentare una grande ricchezza. Purchè venga realizzata nel rispetto delle regole. Che al di là dell’apparente rigidità, rappresentano dei riferimenti, delle sicurezze, capaci di bilanciare quel senso di sradicamento e di spaesamento di chi fatica a ricostruirsi una propria storia.
E questo progetto deve partire soprattutto dai giovani. Sempre più alla ricerca di qualcosa in cui credere e a cui appartenere. Se saremo in grado di dare loro una vera identità, l’Abruzzo avrà vinto la sua sfida. E i clandestini di oggi diventeranno i cittadini di domani.