Per un liberale democrazia e laicità si nutrono di incertezze (per fortuna)

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Per un liberale democrazia e laicità si nutrono di incertezze (per fortuna)

22 Maggio 2011

Leggendo i due interventi sulla laicità, pubblicati sul ‘Corriere della Sera’ il 15 maggio – quello di Tullio Gregory, "Perché è difficile discutere di laicità",  e il 16 maggio, quello di Gaetano Quagliariello e di Maurizio Sacconi, "Laici senza rinunciare alla nostra identità" – il lettore da una vita di Locke, di Constant, di Tocqueville, di Minghetti ha la sensazione (penosa) di trovarsi dinanzi a due diverse forme di integralismo, laicista l’uno, antilaicista l’altro.

A nessuno degli intervenuti sono venute in mente le ragioni per le quali si dice che «la matematica non è un’opinione». A volerle riassumere in breve, la matematica non è un’opinione perché se un nazista, un comunista, un liberale affermassero che «due più due fa cinque», il primo verrebbe confinato in un Lager con altri alienati mentali (insieme a ebrei, zingari, omosessuali etc.), il secondo verrebbe spedito in un manicomio (possibilmente in Siberia) e il terzo verrebbe affidato alle cure di specialisti, rispettosi della persona umana anche quando, è proprio il caso di dire, «dà i numeri». Purtroppo – ma io penso, per fortuna – l’etica e la politica sono immerse nell’opinione: Platone la chiamava doxa e la contrapponeva all’aletheia, la verità, e motivava la sua avversione alla democrazia con l’argomento che «i più» seguono le «opinioni» mentre solo i filosofi hanno il filo diretto con la Verità e, pertanto, solo a loro incombe il dovere di governare saggiamente la città. La modernità nasce all’insegna del riconoscimento (malinconico) del ‘quot capita tot sententiae’: gli interessi e i valori sono tanti e l’arte del governo consiste nel far sì che il loro conflitto non eroda gli spazi di libertà e i diritti degli individui. L’incertezza è divenuta l’orizzonte insuperabile della società degli uomini e ogni volta che si sono volute ristabilire credenze forti condivise si è riaperta la stagione dei massacri. Quando si parla d’incertezza non s’introduce necessariamente il relativismo etico: il relativista pone tutti gli ideali e le aspirazioni umane sullo stesso piano; lo scettico – v. David Hume il vero padre nobile del ‘liberalismo dei moderni’ – si limita a far rilevare che il ‘dover essere’ non può venir fondato sull’’essere’, che nessuna scienza può stabilire che i nostri ‘gusti morali’, i nostri modelli di vita buona, i nostri progetti politici, sono più ‘veri’ di quelli dei nostri avversari. Leggi e norme, sia in etica che in diritto, sono valide «per noi», il che equivale a  dire che non si trovano appese nelle sale dell’Iperuranio platonico. Questa consapevolezza, beninteso, non toglie nulla all’assolutezza del dovere: si ama la propria madre non perché più bella, più intelligente, più colta delle altre madri ma perché è la nostra e noi nutriamo affetti e sentiamo per lei doveri e ai quali pensiamo di non poterci sottrarre. Come insegnava un altro grande esponente del liberalismo, Georg Simmel, apparteniamo a diversi mondi, con diversi codici, non sempre conciliabili. Abbiamo le nostre gerarchie di valore (per il liberale, ad esempio, la libertà viene prima dell’eguaglianza), i nostri dubbi, le nostre strategie per indurre gli altri a convenire con noi. Per questo l’invenzione della democrazia (liberale) ha segnato una svolta epocale: per la prima volta, gli uomini sono stati costretti a fare i conti con le ‘opinioni’ degli altri e a rassegnarsi se, in questo o in quel campo, si sono ritrovati in minoranza. Se ogni disegno o proposta di legge fosse espressione del Giusto, del Vero (!), del Retto o, al contrario, fosse farina macinata dal mulino di Satana,«contare le teste» sarebbe una gran brutta cosa e avrebbe ragione il vecchio Auguste Comte nella sua condanna irriducibile dei ludi cartacei: il timone del governo dovrebbe venire affidato ai Sapienti perché solo essi sanno come raggiungere il porto della felicità e del benessere per tutti.

Riferendosi a temi come la fecondazione assistita, il testamento biologico, la scuola pubblica, Gregory scrive che:« si tratta di problemi di fondo che investono vita e morte, ove lo Stato, se democrazia laica, non può e non deve accettare scelte che derivino da una particolare ideologia religiosa trasformando posizioni teologiche in leggi ordinarie, premessa questa di ogni fondamentalismo». Premesso che su certe questioni bioetiche mi ritrovo più dalla sua parte che da quella del ministro Sacconi, mi chiedo se sia legittimo, invece di discutere delle idee e degli argomenti degli avversari, squalificarli a priori come servi (non disinteressati) del Vaticano. E’ lo stesso disagio provato, tanti anni fa, quando sentivo accusare i comunisti di essere venduti a Mosca: magari sarà stato anche vero ma spesso era manifesto l’intento di non voler affrontare i temi politici posti sul tappeto dal PCI dichiarando l’interlocutore impresentabile. Oggi basta sollevare il problema dell’aborto – rilevando, ad es., che è divenuto, per molte donne, un anticoncezionale o sollevando dubbi sull’eccessiva durata delle settimane entro le quali è lecito praticarlo – per venire accusati di oscurantismo clericale, di cieca e gesuitica fedeltà agli ukase di Benedetto XVI o del suo predecessore, Giovanni Paolo II. Sono posizioni di chi ha la verità in tasca, di chi non avendo il minimo dubbio su cosa debba intendersi per ‘libertà’ e ‘dignità’ della persona umana, ha la tetragona certezza che quanti concordano con le posizioni della Santa Sede siano spregevoli ipocriti, atei devoti, individui mossi solo dal ‘particulare’.

E se uno, pur non essendo credente, avesse un senso così forte della sacralità della vita da ritenere illecito ‘staccare la spina’? Dovrebbe per questo venir assimilato allo ‘spirito totalitario’? Gregory & C. fingono di ignorare che i totalitarismi di tutti i colori non facevano alcun conto della vita (non solo dei nemici dichiarati ma, altresì, dei seguaci in odore di eresia) mentre il biofilismo, cattolico o laico, si caratterizza per l’eccesso di valore conferito all’esistenza umana. I totalitari vogliono spegnere le vite nocive alla causa, gli estremisti del biofilismo vorrebbero conservare i corpi «che respirano ancora», indipendentemente da ogni considerazione di umana pietas e dagli stati accertati di irreversibilità. Gregory, come me, è contrario a ogni accanimento terapeutico e, come me, fa rientrare l’alimentazione e l’idratazione artificiale in questa fattispecie ma sembra non sospettare neppure che la sua (la nostra) è un’opinione ‘ragionevole’ accanto ad altre opinioni, che pure pretendono di esserlo e che, in democrazia, a decidere, in presenza di prospettive inconciliabili, non resta che l’appello ai cittadini elettori o, meglio, ai loro rappresentanti. Il discredito e la diffamazione degli avversari, giusta la tentazione tipica degli ‘intellettuali’ italiani, portati a definire ‘interessi’ i valori degli altri e valori gli interessi propri, con buona pace del filosofo de ‘La Sapinza’, non fanno parte della laicità ma solo di un laicismo da Società Giordano Bruno, da MicroMega, da Critica Liberale.

L’articolo di Quagliariello e di Sacconi, però, non mi sembra, sinceramente, rientrare in un diverso stile di pensiero. Gli autori non sono tenuti a (continuare ad) essere liberali, almeno nell’accezione tradizionale del termine, ma non possono inventarsi continuità ideali sempre più problematiche. Le parole hanno un peso che non è lieve quando si scrive che «la libertà è cosa vaga ed effimera senza l’appartenenza. E solo se si accetta di appartenere a una tradizione, a una famiglia, a una comunità si ha la forza per aprirsi senza timore al nuovo: per intraprendere quel dialogo che integra quanti giungono da noi provenienti da altri mondi e portatori di diverse culture; per collocare la modernizzazione tecnica e scientifica in quell’alveo di valori che la esaltano perché la pongono in comunicazione con la ricchezza della persona e delle sue relazioni comunitarie. Se, di contro, si ritiene che la libertà possa fondarsi solo su diritti positivi in grado di generare sempre nuovi diritti, nell’illusione di liberare l’individuo da ogni vincolo, si finisce per cadere in un relativismo per il quale tutto si equivale e anche la politica si riduce a mera gestione del potere».

Da tempo anch’io, sulla scorta di quel gran libro che è "In difesa della nazione" di Pierre Manent (Ed. Rubbettino), sostengo che l’aver ignorato la ‘comunità politica’, da parte di filosofi del diritto e della politica divenuti legione nelle nostre Università e sui nostri giornali, porta all’imperialismo giudiziario, alla cancellazione della politica e alla tragica illusione che il liberalismo sia la «teorica dei diritti» (come credeva il compianto Norberto Bobbio) laddove è la «teorica delle libertà»(come ha ricordato tante volte Piero Ostellino). Ciò chiarito, tuttavia, mi sembra non poco sconcertante, in una visione liberale, l’affermazione che «la libertà è cosa vaga ed effimera senza l’appartenenza». La libertà è proprio libertà dall’appartenenza e il fatto che senza appartenenza – ovvero senza ‘comunità politica’nel senso di Manent – essa si eserciti nel vuoto (come, del resto, si esercitano nel vuoto i diritti) non significa certo che bisogna ripensare radicalmente la libertà negativa, la libertà come non-impedimento in cui Isaiah Berlin vedeva la quintessenza del liberalismo. Se è vero che «senza i denari» – cioè senza le risorse dello Stato moderno con le sue istituzioni e con le sue tradizioni culturali oggi balzate in primo piano – «non si cantano messe» ovvero, fuor di metafora, non si crea una convivenza civile per noi degna di questo nome, è altrettanto vero che denari e messe rimangono cose diverse.

«Appartenere a una tradizione, a una famiglia, a una comunità» è importante per un liberale non disposto a ripetere le solite stanche tiritere sullo ‘storicismo’ – quello autentico, di Burke e di Cuoco, non la ‘filosofia della storia’ stigmatizzata giustamente da Popper ne "La miseria dello storicismo" – ma purché non si smarrisca che l’individuo, nell’ottica dei Benjamin Constant, viene «prima» della tradizione, della famiglia, della comunità e se queste vengono apprezzate – e tutelate dalle leggi ordinarie – è perché danno sostegno concreto al suo stare al mondo. Si diceva una volta: lo Stato al servizio dei cittadini non i cittadini al servizio dello Stato. Si dovrebbe dire oggi: tradizione, famiglia e comunità al servizio dei cittadini e non viceversa. Un povero sardo, catapultato a Genova o a Torino dalla Barbagia, si sentirà meno solo se accolto dalla ‘Sarda Tellus’ e, in cambio del calore comunitario, che questa gli assicura, acconsentirà a sentirsi «meno libero» (non potrà, infatti, sottrarsi agli incontri, cene, scampagnate, rimpatriate varie organizzate dai suoi corregionari).

Quando Quagliariello e Sacconi ammoniscono che « la sacrosanta libertà di cura non può produrre un determinismo antropologico fondato sull’illusione che l’uomo possa governare la propria vita in ogni istante, anche a costo di degradare il medico a funzionario pubblico e lo Stato a dispensatore di suicidi assistiti a richiesta» non rendono giustizia all’etica laica e liberale, che non obbliga nessun medico a spegnere una vita né lo Stato a garantire un reparto ospedaliero per quanti non vogliono più vedere ‘lo dolce lome’. Qui è questione di stabilire, né più né meno, se ho la libertà, nel caso mi trovassi nelle condizioni di Eluana Englaro, di non venir alimentato e idratato artificialmente. Se la risposta è negativa, in virtù del « riconoscimento laico del valore della vita»–che «è il necessario presupposto per quel vitalismo economico e sociale che solo può sottrarre al declino le società di vecchio benessere»–,non si vede come si possa restare ancora sul piano del liberalismo. E si aggiunga che il rigetto della mia ‘pretesa’ con un discorso sulla «crisi della civiltà», che in Europa circola da qualche tempo (a dir poco, da tre secoli) rende il mancato riconoscimento ancora più preoccupante, legandolo non a motivi di opportunità o ad una qualche etica della responsabilità (se si concede «a», negli ospedali potrà derivarne «b»..) ma ad una diagnosi ambiziosa sullo stato di salute del mondo e dell’Occidente. E non si dimentichi che dalle diagnosi ambiziose nascono le religioni politiche!

Nel massimo rispetto per tutte le opinioni, dal momento che tutte fanno riferimento a concezioni etiche impegnative e fortemente vissute (tirare in ballo la malafede e l’opportunismo, pur presenti, in qualsiasi agire umano e in qualsiasi schieramento significa si traduce nel sostituire agli argomenti l’arma bianca), mi si conceda ancora una domanda: nella vexata quaestio che oppone, in bioetica, i sostenitori della indisponibilità della vita ai sostenitori della qualità della vita perché dovremmo aspettarci (e da parte di chi?) una sentenza infallibile che risolva una volta per sempre la controversia? Diceva il vecchio Hegel (già per questo inassimilabile a qualsivoglia ideologia totalitaria di destra o di sinistra) che la tragedia della storia umana non sta nel fatto che si confrontano di continuo  il ‘bene’ e il ‘male’ ma nel fatto che ci si trova dinanzi a due ‘verità’. Se fosse stato presente allo scontro (anche parlamentare) sul caso Englaro dove da una parte si gridava ‘assassini e, dall’altra, ‘fascisti’ (chissà perché poi) si sarebbe ritratto inorridito da un paese in cui una buona parte della cultura lo accusa ancora oggi di illiberalismo (e, va detto, con qualche buona ragione). «La libertà è un rischio» dice un antico aforisma: quando si entra nelle regioni del mistero e dell’indecifrabile ciascuno faccia le sue scelte senza la pretesa di ‘costituzionalizzare’ le leggi che da quelle scelte derivano – che è poi quanto pretendono, a sinistra, i filosofi del diritto come Luigi Ferrajoli e dei loro colleghi e a ‘destra’ certi giuristi cattolici come l’amico Francesco D’Agostino, che, potendo, gli uni e gli altri, iscriverebbero nella carta costituzionale i loro diritti e i loro divieti.

Quagliariello e Sacconi appartengono a un’area politico-culturale che spesso si richiama alla ‘società aperta’ e non a caso citano Benedetto Croce. Il filosofo, però, votò – a ragione o a torto – nel 1929 contro il Concordato e meno di vent’anni dopo contro l’articolo 7. Forse, tenuto conto delle circostanze storiche, avrei votato, la seconda volta, in maniera diversa ma, in ogni caso, un liberale è tenuto a ricordare la sua indipendenza spirituale, la stessa manifestata da Norberto Bobbio con le sue riserve nei confronti dell’aborto. Dovremmo imparare tutti a rispettare quanti non la pensano come noi – e non sul piano della retorica scolastica ma nella vita di tutti i giorni – e a intendere il rispetto non come l’intendeva Trilussa (quella ch’è idea la rispetto, «quello ch’è omo lo cazzotto») ma nel senso humeano del dubbio salutare che anche i nostri avversari potrebbero avere nella loro faretra qualche buona freccia.

E’ vero, tuttavia, che ad accendere i fuochi della guerra civile in Italia sono, soprattutto, i ‘chierici (traditori) della sinistra radical chic che imperversano nelle aule universitarie, nelle redazioni, nelle trasmissioni radiofoniche e televisive. Ne è espressione idealtipica Chiara Saraceno – una studiosa che proviene da una prestigiosa dinastia cattolica, come Paolo Flores d’Arcais, del resto – che scaglia i suoi fulmini laicisti dalle colonne di ‘Repubblica’. Nell’articolo, "Un paese alla rovescia", intervenendo sulla legge contro l’omofobia, la sociologa torinese non esita a scrivere che «anche senza ricatti e scambi, l’atteggiamento della Chiesa trova terreno fertile nella grettezza morale e nella incultura di una classe politica che sembra ricordarsi dell’etica solo quando sono in gioco le scelte dei cittadini circa le proprie relazioni e vita personale – dalla sessualità alla procreazione alle decisioni su come affrontare la fine della vita» e a denunciare «il rigorismo» dei «moralisti d’accatto». Nelle sagrestie della mia adolescenza, i comunisti erano il ‘buco nero’ della solare società italiana: nelle riflessioni di Chiara Saraceno il posto è stato preso da quanti, in tema di omosessualità e di ‘normalità’, non condividono le sue idee (come non le condivideva Freud…). Il tanfo è sempre quello delle candele spente e dei locali non aerati. Non meraviglia, pertanto, che nessuna considerazione venga riservata, nell’articolo, a quanti, ad esempio, si chiedono perché l’aggressione a una coppia gay debba comportare conseguenze penali assai più pesanti di un’aggressione a una coppia eterosessuale e perché quanti hanno gravemente leso i diritti e le libertà altrui non debbano essere giudicati (e severamente) per i loro atti. Per l’indignata articolista, queste domande svelerebbero un «universalismo strumentale» nato dalla «negazione che esistano violenze motivate specificamente dall’odio e disprezzo per particolari gruppi sociali», un «universalismo negativo, non positivo». E se invece fossimo in presenza di un universalismo liberale deciso a rendere irrilevanti le ‘appartenenze’ (di genere, di religione, di militanza ideologica, di etnia, di nazionalità etc.) per mettere al centro del dibattito pubblico l’individuo e l’uso fatto della sua libertà e responsabilità? Se in una lite un naso viene fracassato perché il proprietario è un interista e un altro naso subisce lo stesso danno perché il proprietario è un gay, per qualche vetero liberale come il sottoscritto, dovrebbero contare solo la gravità della ferita e l’aggressione fisica a un essere umano. E’ un discorso ‘astratto’ questo? Sono disposto a concederlo ma quale autorità riveste una qualsiasi Chiara Saraceno per tacciarmi di ‘grettezza morale’ e di ‘incultura’? Non potrebbe limitarsi a manifestare un ‘disaccordo civile’?

 Purtroppo qualche frase infelicissima di Berlusconi e il disegno perseguito da non pochi ‘intellettuali organici’ del PDL di «ridare un’anima» (cristiana) all’Italia e all’Occidente sono benzina sul fuoco per gran parte dell’intellighentzia scalfariana. E quel che è peggio rischiano di compattare, da un lato, ‘laicità’ e, dall’altro, antagonismo sociale, politico ed economico. Col risultato che quanti erano divenuti oggettivamente impresentabili, avendo sepolto il loro cuore all’Avana, in virtù del loro impegno laicista, sono rientrati nel gioco, come la buonanima di José Saramago, oggi celebrato dai radicali per il suo sostegno alla Fondazione Concioni. A Saramago sono state condonate tutte le battaglie tardomarcusiane contro la ‘società aperta’: se, in via d’ipotesi, avesse esaltato Stalin, il lavacro laico l’avrebbe redento e rigenerato. E’ la stessa fortuna capitata a Margherita Hack, l’astronoma rifondazionista, che invita gli Italiani a sbattezzarsi e che, forse per questo è stata proposta ‘senatrice a vita’. Nel nostro paese, è proprio il caso di dire, se ne vedono tante….