Per uscire dalle crisi occorre riscoprire il valore del lavoro

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Per uscire dalle crisi occorre riscoprire il valore del lavoro

25 Gennaio 2009

La crisi nella quale ci dibattiamo ha principalmente ragioni finanziarie e richiede certo risposte di tipo finanziario. Ma essendo anche crisi economica, in quanto tale, essa ripropone alcuni temi cruciali per la nostra società. Penso al tema dell’impresa e della cultura che è necessaria a sostenerla -una cultura fatta di responsabilità, solidarietà, passione, competenza, disponibilità al rischio, non certo di propensione allo stipendio fisso, all’assistenzialismo e cose simili. Pochi mesi fa, sempre sull’Occidentale, ebbi a scrivere sul senso di un’impresa “civile”. Oggi vorrei richiamare l’attenzione su un altro tema cruciale: il lavoro.

Tramonato il marxismo, che aveva enfatizzato il lavoro come l’”essenza” dell’uomo (sta qui una certa grandezza del marxismo) e come la forma più alta di “ricambio organico tra uomo e natura” (sta qui il suo grande errore), da molto tempo abbiamo smesso di interrogarci su questa importante realtà. Fatta eccezione per la grande enciclica Laborem exercens di Giovanni Paolo II, che risale ormai a quasi trent’anni fa e che rappresenta a mio avviso uno dei livelli di consapevolezza più alta in tema di umanità del lavoro, abbiamo ridotto ormai il lavoro a mero strumento per soddisfare i nostri crescenti bisogni, dimenticandoci appunto del suo senso più profondo che interroga addirittura l’”essenza” dell’uomo. 

L’operaio, direbbe il giovane Marx, mette in ciò che produce “la sua vita”; nel lavoro egli si pone “in rapporto all’altro uomo”; “vede se stesso in un mondo fatto da lui”. Altro che semplice strumentalità del lavoro. Nel lavoro è l’uomo che si esprime, trascendendo sempre la natura, umanizzandola secondo i propri progetti e costruendo un mondo umano, all’interno del quale soltanto egli può condurre una vita veramente umana. Senza questo mondo “fatto” da noi, saremmo veramente tutt’uno con la natura, col suo incessante fluire che tanto assomiglia alla mors immortalis di cui parlava Lucrezio. Grazie al lavoro, invece, diciamo pure, grazie ai nostri strumenti, alla nostra tecnica, anch’essi frutto del nostro lavoro, noi sopperiamo ai nostri bisogni “naturali”, la nostra fame, la nostra sete, e in più ci costruiamo un mondo (le case, le chiese, le città), la cui stabilità soltanto ci consente di “vivere bene”.

Marx era in fondo convinto che la vita buona (il comunismo), pur attraverso il travaglio inevitabile del lavoro alienato, sarebbe scaturita come una sorta di esito necessario del “movimento della proprietà privata”. Hannah Arendt, tanto per citare un altro autore, riteneva che il mondo del lavoro e quello dell’ homo faber fossero separati tra loro e, soprattutto, entrambi separati dal mondo della politica, il mondo dei fini, il mondo dove si decide la bontà della vita. Oggi, a mio avviso, dovrebbe essere chiaro a tutti come non abbia senso parlare di vita buona, senza che il lavoro diventi esso stesso più “umano”, senza la possibilità che la vita buona sia estenda anche alla vita lavorativa e agli uomini che lavorano. Se è vero che “l’operaio mette nell’oggetto la propria vita”, lo ripeto, non si può pensare al lavoro come a una semplice attività strumentale. Anche le cosiddette attività strumentali, infatti, proprio perché dell’uomo, rappresentano sempre l’attualizzazione di un significato che non è mai meramente strumentale. Nel lavoro è sempre qualcosa di umano che si realizza; soltanto lo “schiavo per natura”, lo “strumento animato, come lo chiama Aristotele nella Politica, diciamo pure, il robot potrebbero svolgere un’attività meramente strumentale, che sarebbe appunto non propriamente “umana”. Non a caso l’apostolo Paolo esorta a pensare a Dio qualsiasi cosa gli uomini facciano. Pensare a Dio costituisce la migliore strategia per non dimenticare mai (qualsiasi cosa facciamo, appunto) la grandezza del nostro essere uomini. Guai dunque ad un lavoro come semplice “merce” e a un uomo come semplice “forza lavoro”, ma guai anche a un lavoro sganciato, se così si può dire, dall’umanità che lo costituisce e considerato mera strumentalità.

Oggi siamo per lo più indotti a pensare che la nostra vera vita incominci soltanto dopo che abbiamo finito di lavorare; il solo tempo veramente nostro, il tempo in cui ci sentiamo veramente felici, sembra essere soltanto il tempo libero dal lavoro. In questo modo, però, senza rendercene conto, abbandoniamo all’insensatezza la maggior parte del tempo della nostra vita. E’ questa insensatezza la causa principale del “malessere” che affligge ormai da anni il mondo del lavoro. Caduta di professionalità, mancanza di motivazioni, disaffezione dal lavoro, bassa produttività sono soltanto alcuni sintomi di questo malessere, al quale si può certo cercare di porre rimedio con nuove forme di organizzazione del lavoro, nuovi incentivi professionali, economici e cose di questo genere. Ma il vero problema è un altro. C’è bisogno soprattutto di una svolta culturale, che sappia valorizzare il grande capitale “personale” e “sociale”, oltre che economico, che si esprime nel lavoro. Competenza, inventiva, senso del proprio dovere, capacità comunicative, organizzative e relazionali sono soltanto alcune espressioni di questo capitale, attraverso le quali riconferire il giusto senso al lavoro. La crescente finanziarizzazione della nostra economia, che si è registrata negli ultimi anni, ha contribuito senz’altro ad accantonare una riflessione adeguata sul senso e il significato del lavoro e del sistema economico in quanto tale. Non sarebbe male approfittare della crisi per riscoprirne il lato profondamente umano e liberante per l’uomo.