Per valutare quel che è successo a Eluana serve la vecchia morale

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Per valutare quel che è successo a Eluana serve la vecchia morale

10 Febbraio 2009

1. I giorni dell’attesa del decreto-legge sono appena dietro di noi; ma la morte di Eluana Englaro li rende già remoti. Scrivevo da non giurista ad un amico giurista, per scambiare con lui dei pareri: “Mi pare che l’argomento "attendere il testamento biologico" (anche se non dovrà essere questo il suo nome tecnico né la sua ratio) contro l’urgenza del decreto, sia inappropriato: la Englaro sta per morire: l’inizio della procedura è previsto per domani [6 febbraio], e l’urgenza, in questo genere di eventi, sussiste [è un pericolo individuale di morte che, per la esemplarità della sua gestazione, e il rilievo della giurisdizione che la “autorizza”, è di rilevanza collettiva, è già pericolosità sociale].  

In secondo luogo, il provvedimento del governo non si interpone, in sé, non opera ostativamente nell’iter verso una futura disciplina legislativa: la stessa bozza del testo (che leggo su vari siti) esordisce con: "in attesa dell’approvazione". Certo è che una legge che si "faccia carico di un equilibrio ragionevole", come si dice, tra visioni del mondo e della vita, fa prevedere un lungo iter. Un iter non facilitato dal lessico che a sinistra, addirittura tra i cattolici, si usa: da una parte (la parte del “testatore”) vi sarebbero "diritti", dall’altra (le concezioni della vita e della morte) vi sarebbero "punti di vista" (com’è sfuggito ad es. all’amico sen. Stefano Ceccanti, in un suo intervento).

Questa dicotomia declassa a "punti di vista" quelli che sono fondamenti di diritto naturale, gerarchicamente superiori a diritti individuali di qualsiasi generazione.

E  – guardando da vicino il sistema di effetti e vincoli  che le pronunce delle diverse corti, e altri atti, hanno saldato insieme – osservo che il previsto decreto-legge, in quanto assume che "l’alimentazione e l’idratazione (…) non possono essere in alcun caso rifiutate dai soggetti  interessati (…) o sospese da chi assiste", non mette in discussione la legittimità della giurisdizione che "autorizza a disporre l’interruzione del trattamento", ma si oppone ad un nodo dell’argomentazione delle due Corti (che è poi prevalentemente quello della pretesa natura terapeutica dell’alimentazione artificiale), nodo concettuale, non atto di giurisdizione. Va detto che una attenta lettura della sentenza della Cassazione (anche in quanto essa conferma la linea argomentativa usata a partire dal 2007) lascia molto insoddisfatti, anzi contrariati. I giudici incollano formule, fanno teoria o caratterologia o diagnostica secondo la disgraziata coinè di luoghi comuni  che conosciamo.

Più importante ancora mi pare, a filo di logica, l’evidenza che una "autorizzazione" non vincola alcuno all’esecuzione.  Quanto all’esecuzione, poiché essa può darsi o non darsi, prevarranno allora su ogni altro criterio i principi che tutelano una vita umana. In altri termini: poiché potrei anche non interrompere l’alimentazione/idratazione di Eluana, se deciderò di farlo dovrò fondarmi su una pienezza di ragioni, in se più cogenti (se ve ne sono) di quelle stesse della tutela di una vita. Non deciderò di sopprimere un essere umano perché una sentenza me ne dà facoltà. Dovrò esercitarmi in un dibattito rigoroso; se il risultato fosse anche solamente dubbio dovrei astenermi dal procedere. Come ha ricordato Ferrando Mantovani, in dubio pro vita. Aggiungo che, per paradosso, si dovrebbe procedere almeno con la cautela dei codici che contemplano la pena capitale. Se devo eseguire una condanna a morte posso, in caso di emergenza, usare mezzi non compatibili con principi di umanità? Forse solo in guerra, nel diritto penale militare di un tempo, si può finire con un colpo di pistola chi è stato risparmiato dai fucili del plotone.”

“Per questa ragione” proseguivo,  sempre conversativamente, “non essendovi per nessuno un obbligo ad eseguire alcunché,  la procedura che si pone in essere alla Casa di Riposo La Quiete di Udine esigerà un controllo severo. Dare la morte, ovvero lasciar morire potendosi (e nella classica deontologia medica, dovendosi) invece evitare quella morte, e farlo senza pubblico interesse ma solo per ossequio alla volontà di privati, è talmente abnorme e contra legem naturae che chi se ne fa esecutore dovrebbe essere sfidato a conformarsi, in massimo grado, ai principi di salvaguardia della persona.  Eluana non deve morire, nella intentio dei giudici; le sentenze non dicono questo, e sarebbe inconcepibile lo dicessero [naturalmente i giudici sanno che questo vuole suo padre, e che lo otterrà; e a questo, pilatescamente, lo “autorizzano”]”.

L’amico giurista mi rispondeva chiarendo più cose, tra l’altro: “ (…) Anche la sentenza del TAR Lombardia è criticabilissima, non da ultimo per la forma del rito: sentenza cd. in forma breve, in camera di consiglio, senza udienza pubblica, ossia in una forma che andrebbe riservata ai casi di manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso. Aggiungo che un decreto legge ponte a carattere generale, limitato nel tempo, in attesa della legge, non mi  parrebbe incostituzionale. Dall’altra parte abbiamo un decreto del giudice che non fa giudicato sostanziale, trattandosi – tra l’altro – di situazioni che evolvono de die in diem, e attribuisce una mera facoltà, non una pretesa in senso tecnico.

Veda su Avvenire l’articolo di Mantovani; rimarrà colpito dal fatto che il grande penalista spiega che quel tipo di pronunciamento è contra legem e non impedisce la possibilità di ipotizzare il reato di omicidio. E infatti la Procura si sta muovendo; non è vincolata da questa pronuncia. Voglio dire che l’equivoco che sta incastrando tutti è quello di enfatizzare il tipo di sentenza adottata, come se si trattasse di una pronuncia definitivamente accertativa di un diritto in senso tecnico (giudicato sostanziale), mentre essa vale più o meno quanto un atto amministrativo.

Senza contare che, anche a volerle dare quella valenza, essa non vincolerebbe i terzi. O meglio, al limite potrebbe vincolarli negativamente a non intromettersi, come rispetto a una sentenza che accerti la mia proprietà di un fondo, ma non certo alla cooperazione attiva. Sul che si innesta il discorso di Sacconi sul fatto che il Sistema Sanitario Nazionale non può cooperare (…)”.

Fin qui, facendo il punto domenica 8, quando abbiamo assorbito l’assalto con povere armi spuntate di Eugenio Scalari: il titolo del suo editoriale “Non poteva esserci scempio più atroce” era già, ed è oggi in tutta evidenza, un nostro titolo.

2. Sono trascorse poi brevi ore cruciali, per Eluana anzitutto; ieri sera è morta. Del “conflitto istituzionale” si era messa in scena una sopravvalutazione emozionale, politica e mediatica, che intendeva farci dimenticare quello che era in corso, presso le strutture di una casa di riposo: un’esecuzione capitale giunta ora al suo esito. Niente scandalo: “la vecchia morale non serve più”, come l’edizione italiana sottotitolava nel 1996 un’opera (Rethinking Life and Death) del filosofo, animalista e bioeticista australiano, Peter Singer. Singer, che in anni recenti ha coerentemente scritto anche contro l’ex presidente Bush e le sue scelte di governo in materia etica e bioetica, argomentava ancora una volta “a favore del nostro diritto di valutare la qualità non solo della propria vita, ma anche della vita degli altri, quando di tratti di nascituri o anche di […] nati o di malati non più in grado di decidere” (uso le parole con cui Carlo Augusto Viano, autorevole storico della filosofia quarant’anni fa, oggi campione delle battaglie laiche, lo recensiva con approvazione nel 1997 su una rivista filosofica, in una lunga nota intitolata: Uccidere è lecito).

Oggetto di questa diffusa pratica di esecuzioni capitali “autorizzate” sono gli innocenti e gli inermi; agli adulti la nostra superiore cultura, figlia dell’Illuminismo, destina, invece, una nevrotica tutela contro ogni “danno”; e agli adulti criminali, con simmetria non casuale, riserva prosecuzione della vita, percorsi rieducativi, possibilmente non gravati da troppa detenzione.

Che il destino di Eluana, come persona e come caso giuridico, fosse quello di un’esecuzione silenziosa, era stato nitidamente, e per tempo, previsto da uno dei nostri maggiori penalisti, Ferrando Mantovani (lo vedremo meglio tra un momento). È troppo, è lesivo, dire che anche il Presidente della Repubblica avrebbe potuto prendere atto di questo profilo? Il Presidente sembra, invece,  aver dato ascolto e con troppa fretta, anche ad avviso di giuristi, ad una sola parte, in sostanza ad un sottogruppo della corporazione dei costituzionalisti, caratterizzata in alcuni settori non solo da un’ostilità costante nei confronti del governo in carica, ma da una franca vis “laica” (anticattolica) che, con varia consapevolezza di sé, non perde occasione per manifestarsi. E un giurista ben situato può produrre, assieme ad opinioni, effetti vincolanti per uomini e ordinamenti.

Aver ottenuto la morte di Eluana, fatto vincere al padre la sua cocciuta e dirompente battaglia, sembrerà oggi a questi uomini e donne una vittoria nei fatti e davvero in corpore vili (qual è il corpo di Eluana per questa cultura dei  “diritti”, che ha ripugnanza per il corpo malato e per i legami vitali e solidali, nei quali, però, esso conserva sempre dignità) sulla Chiesa e sulla concezione europea e cristiana dell’uomo. Zagrebelsky con una maggiore autonomia rispetto alle sociétés de pensée avrebbe potuto destinare la sua recente invettiva (“veleno nichilista”) non al governo ma a questa intelligencija.

Sarebbe stato lungimirante, da parte della massima carica dello stato, non favorire, anche solo di fatto e involontariamente, gli obiettivi di “una parte” della nostra cultura e  dell’establishment, appropriatisi del caso Eluana dal 2007 (dalla sentenza della Cassazione dell’ottobre) come strumento per forzare, qualcuno dice scardinare, leggi dello stato e morale pubblica. Quando si è detto autorevolmente, da parte ecclesiastica, che nella vicenda in corso stanno prevalendo i “formalismi giuridici”, questo probabilmente si è inteso dire:  non certo che il diritto sia in sé formalismo, ma che la macchina giurisdizionale procede formalisticamente quando, per pigrizia o per astuzia (come nel caso Englaro), produce in sequenza progressiva quelle brecce necessarie e sufficienti a rendere possibile una pronuncia, un “giudicato” correttamente prodotto ma (sostanzialmente) contra legem.

I costituzionalisti di palazzo hanno, comunque, reso difficile al Capo dello stato dare il giusto peso a quanto Mantovani aveva scritto, poco prima; reso difficile anche solo rileggere il formidabile “manifesto” dei penalisti Ardizzone, Caraccioli, Eusebi, Gallo, Mantovani, Ronco, del 24 luglio 2008. 

Scriveva Mantovani, su Avvenire: “due vizi di fondo” segnano le pronunce giudiziarie alla base del precipitare della vicenda Englaro. Le pronunce costituiscono in effetti non atti di giurisdizione ma di “sovranità”.

A fronte di queste ambizioni, vi è dell’altro, come Mantovani argomentava impietosamente, e come numerosissimi osservatori e analisti hanno scritto. Troppi elementi dell’impalcatura argomentativa adottata dalle Corti appaiono non tanto opinabili (questo avverrà sempre, per ogni giudizio) quanto arbitrariamente posti come certi, dalle questioni medico-scientifiche ancora aperte, al criterio improvvisato adottato nel postulare, anzitutto, e poi “ricostruire” una personalità, lo stile di vita, le convinzioni di Eluana, obbliganti per i giudici. Non si dica, aggiungo, della banalità (su terreni di estrema complessità, quali quelli della personalità) delle risultanze di quella indagine.

Della esemplare, direi perfetta, sintesi che l’articolo di Mantovani proponeva della vicenda giudiziaria Englaro (nella sua portata etico-giuridico-politica profonda), va sottolineato con forza il profilo più grave, quello che l’interruzione di alimentazione in atto costituisca omicidio doloso.   Nella segnalazione di questo esito, materiale e giuridico, oltre il caso particolare e la singola vita), convergono necessariamente i saperi, e le conseguenti capacità di lettura dei fatti, sia del giurista che rifiuti di farsi strumento neogiacobino di eversione della norma vigente, ma specialmente di norme fondamentali antropologicamente costituite (o di quella Our Traditional Ethics alla cui distruzione mira il naturalismo materialistico dei Peter Singer), sia dell’antropologia cristiana senza sosta esplicitata e verificata nell’azione magisteriale della chiesa cattolica, e nella chiarificazione dei diritti di Eluana condotta da anni da parte dell’intelligenza cattolica.  Molti gli attori di questa opera nella gerarchia, nelle Facoltà pontificie, o tra i christifideles (ma non i Mancuso o i Reale).

Le due culture, la giuridica e la filosofica cristiana, sono d’altronde sinergiche da oltre un millennio e mezzo, e sono in virtù di questa sinergia le strutture portanti della civiltà umana. Ogni indirizzo etico e giuridico (infine politico) dei moderni-contemporanei, gravemente deviante da questo ordine è, verificabilmente, omicidario sui deboli. Alla domanda che accompagnava su Avvenire l’intervento di Mantovani: “perché, allora, non è stato fatto scattare il principio di precauzione, secondo il quale in dubio pro vita” – vi è una risposta: perché i numerosi apologeti (obiettivamente anti-cristiani) del dubbio, che ci perseguitano in questi giorni con le loro omelie laiche, sono antropologicamente ciechi. Non solo, dunque, essi affermano un in dubio pro libertate ma un in dubio pro impotentia, nella piena gamma semantica di impotentia (che designa la debolezza degli uni non meno che la sfrenatezza di altri).

3. La lenta esecuzione capitale di Eluana Englaro, perseguita in nome e nell’esercizio di una implacabile virtù giacobina (mascherata, talora, di accoramento umanitario, come accade da oltre due secoli nell’eloquio rivoluzionario), non ha trovato né costretto la cultura cattolica sulle difensive. Non abbiamo infatti subito le regole del gioco che si è sperato di imporci, contando su un nostro disorientamento, che non vi è più. Interessante che, non potendo contare più sulla debolezza pubblica dei cattolici, i polemisti laici si aggrappino alla prognosi (Barbara Spinelli) di un “potere apparente” della Chiesa (e di un suo immancabile collasso).

Non abbiamo rinunciato all’opportune et importune della memoria e alla imperatività dei fondamenti umani e rivelati, nonostante i richiami alla (finta) pace nella sfera pubblica e a interpretazioni neoregalistiche del Concordato, inconsistenti con la ratio profonda, con la esemplarità mondiale, della sua esistenza. Nonostante l’invito, formalistico o ipocrita, a “non dividere” gli italiani. Nonostante l’evocazione delle “due forme di violenza” con cui Severino fallisce ancora una volta l’analisi dell’enjeu del presente; e spiace che la penetrante intelligenza di Panebianco gli dia corda. Un popolo che non può non dirsi cristiano, anzi cattolico, ha ancora risorse sufficienti per sottrarsi all’umanitarismo nichilista che produce e celebra morti liberatrici, a sollievo delle private angosce, purché la chiesa cattolica (altre chiese appaiono colpevolmente appiattite su quel nichilismo), che ha costruito nei secoli questo popolo, gli parli ancora. Ammaestrare per salvare è un santo dividere (se accade) per riordinare nella iustitia.

Non abbiamo subìto la retorica del “dubbio” (chi potrebbe subirla tanto è culturalmente scontata e consunta?) e della “libertà” della coscienza dis-orientata, non secondariamente perché quel “dubbio” non si realizza oggi come volontà di conoscenza e di giustizia, ma, mentre si compiace manieristicamente di sé, accondiscende ad automatismi omicidari. Vale per tanti, vale per le incontrollate sortite della De Monticelli, ma devo ricordarlo anche all’amico Luca Ricolfi (La Stampa, 8 febbraio).

Non abbiamo subíto il primato, eversivo de facto (cosa che si pensava continuasse a sfuggirci), della ricerca di “sovranità” da parte  dei giudici nel maneggiare diritti individuali e tutele, intaccando la stabilità della civiltà giuridica e della sua struttura profonda. E di questo abbiamo parlato.

Stiamo anche imparando a non dare spazio a concezioni della condizione naturale (in quanto distinta dall’artificiale, dal tecnico), oscillanti tra estremismo spiritualistico e mistica neonaturalistica. Nessuna politique de la solitude nell’orizzonte antropologico che ci sostiene; il singolo individuo-persona si costruisce nel fuori di sé, non solo come apertura all’altro umano, ma agli strumenti e alle risorse del mondo attorno, all’altro come Mondo. Natura umana è questo; supporre (o dare ad intendere) che ciò che mi viene da altro, uomo o strumento (in effetti sempre uomo e strumenti, techne), sia un di più e, nel caso di mia impotenza e nonsufficienza, un di più oltraggioso e invasivo è un errore. Disperata argomentazione in Peppino Englaro; negli altri chiacchiera. Quando il padre di Eluana ci ripete, senza sosta, che quanti hanno permesso negli anni l’esistenza della figlia le avrebbero praticato una “inaudita violenza”, ignora l’umanità costitutiva della figlia e misconosce la retta e alta opera di uomini di carità (donne in particolare), non ciechi.

Non dovremmo subire, neppure, quella che chiamo la fallacia della sostituzione empatica. Circola, infatti, e si mescola nella ridda delle sensibilità, e delle opinioni (più che vere argomentazioni) umanitarie a favore della sospensione dell’alimentazione, questo assunto: se io mi trovassi nelle condizioni attuali di Eluana non vorrei che questo mi accadesse. Enunciato che si vuole complementare, anzi rafforzativo, dell’altro: se Eluana avesse saputo/previsto di trovarsi nelle condizioni in cui si trova attualmente non avrebbe voluto vivere (e qualcosa del genere sembra che lo abbia detto). Conclusione: la condizione attuale (attuale fino a qualche giorno fa) di Eluana deve avere fine.

Ora, la fallacia consiste (come di regola in questo genere di argomenti, che appartengono al genere del paradosso) nel giocare per dire così la partita argomentativa (ed emozionale-empatica) su due tavoli. Io sento e ragiono come il soggetto sano che rifiuta per sé il (possibile) degrado corporeo e psichico della malattia, e contemporaneamente sento e ragiono come il malato (in me, simulato empaticamente) che soffre/rifiuta la propria condizione. Il sano decide, allora, in quanto malato (simulato-empatizzato in se stesso),  per il malato fuori di sé, per l’altra persona malata (che egli non è), come se decidesse per sé. Decide la morte di altri come decidesse la propria, ma restando vivo e ora “libero”; l’altro muore.

Analogamente al celebre paradosso di Groucho Marx, colui che sceglie per la morte di Eluana, empatizzata in sé, afferma: fatemi morire (in quanto sono Eluana); non posso accettare, infatti, di vivere in una umanità dove esistono persone come me. Ma è Eluana che, sostitutivamente, muore.

Ma un’altra cosa non dovremmo subire. Mi spiego. Il dott. Amato De Monte (il "medico bocconiano con l’orecchino", che ha coordinato il trasferimento di Eluana a Udine) è rimasto sconvolto per aver accompagnato Eluana qualche ora, per non averla trovata come nelle foto di 17 anni fa,  per aver concluso anzi che era morta 17 anni fa. Quel “morta diciassette anni fa” era un’iperbole, certamente; ma ricaviamo dal tutto (interviste giornalistiche e televisive) che De Monte sarà sollevato vedendola finalmente morta. Anzi lo speriamo; sarebbe insopportabile, e grottesco, che gli esecutori, e non solo loro, piangessero dinanzi al cadavere di Eluana.

Certo il dottore ne ha ascoltato battere il cuore (e perché mai? non era “morta”?), non come le suore di Lecco hanno fatto fino all’ultimo; non sembra sospettare che si abbia un senso vivere anche non coscienti, anche non giovani e gradevoli “come diciassette anni fa”; specialmente non è in grado di reggere la vista, per qualche ora, di un essere umano trasformato, un essere che certo è un Mistero (bisognerebbe avere questo insight, questo sensus spiritualis, cui né a Medicina né alla Bocconi, suppongo, formano gli studenti), non necessariamente di sofferenza (non nel caso di Eluana), ma che è Mistero così come ci si presenta, memoria della nostra finitezza, epifania del Crocifisso.

Dicono i giornali che il dottore, in quel viaggio in ambulanza tra Lecco e Udine, sarebbe “invecchiato di cinque anni”; ma uomini e donne che seguono lungamente malati e morenti non si sconvolgono così facilmente e, specialmente, non suggeriscono mai che, quando si è in quello stato, è meglio ci si “lasci morire”. Si capisce, allora, perchè l’umanità che De Monte interpreta e di cui esegue con convinzione la sentenza (quante volte lui e altri mi hanno ricordato in questi giorni le perorazioni degli uccisori di Thomas Beckett, strumenti del Re, nell’Assassinio nella cattedrale di T.S.Eliot), voglia sottrarsi alla visione della sofferenza inutile, della dissipazione patologica dell’immagine nell’uomo. Eppure le buone suore raggiungono età adulta e anziana, se la salute le assiste; non sono "invecchiate" per il  diuturno contatto e vincolo che le ha viste sovvenire ad un corpo/persona che non bastava a sé;  era come allattare un neonato. E Madre Teresa, se non sbaglio, ha vissuto a lungo. Non è questione di nervi saldi, ma di concezione del mondo e dell’uomo.

Il dott. De Monte stilizza, a mio avviso, le mani (e le teste, e i cuori) cui stiamo affidando gli esseri umani non integri o non autosufficienti, e forse affideremo noi stessi. Con tutto il rispetto, non dobbiamo accettare questo destino.

Ezio Mauro ha scritto (editoriale di Repubblica, 5 febbraio) di “corpo totemico” su cui la Chiesa cercherebbe la conferma del proprio potere sulla vita e sulla morte. Sospetto che non sappia bene di che parla. Eluana, corpo e persona, è stato protetto e difeso dalla Chiesa, e dai "non credenti" partecipi con essa della comune ragione cristiana, perché è figura concreta della dignità ultima, naturale e soprannaturale, del corpo di ognuno.