Per Veronesi la “bontà” è innata e il “male” un chip da riprogrammare

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Per Veronesi la “bontà” è innata e il “male” un chip da riprogrammare

29 Luglio 2009

Sul primo numero della rivista “Ok. La salute prima di tutto” Umberto Veronesi, oncologo e attualmente senatore del Pd, pubblica un articolo (anticipato la settimana scorsa dal “Corriere della Sera”) in cui sostiene – con il sostegno di antropologi, genetisti, psicologi e psichiatri – la tesi secondo la quale le nozioni di bene e male sono geneticamente innate in tutta l’umanità. Proprio a questa universale conformazione cromosomica sarebbe dovuta, a suo avviso, la singolarità della civilizzazione umana fin dall’epoca primitiva rispetto alla vita animale. In particolare, ad essa sarebbero da ricondurre la tendenza all’”altruismo verso il prossimo più debole e inerme”, la generosità, e persino “il riconoscimento dei diritti altrui”.

Infatti, argomenta Veronesi, già l’uomo delle caverne “era fondamentalmente un animo buono e pacifico”. Fu questo a consentire la formazione della famiglia, dei clan, delle tribù e dei popoli. Fino alla “forma eccelsa di bontà, cioè la ricerca e il mantenimento della pace”, a suo avviso sempre “connaturale alla specie umana”.

Insomma, Veronesi e gli autorevoli autori da lui citati disegnano un affresco a tinte rosee della storia umana, che autorizza previsioni ottimistiche per il futuro del nostro genere. I conflitti, gli egoismi e la violenza tra gli esseri umani – tale sembra essere la conseguenza della loro tesi – sono superabili, e l’edificazione di una democrazia mondiale incardinata sui diritti umani è un’impresa realisticamente possibile.

Apparentemente, l’idea di predisposizione genetica dell’essere umano alla morale e alla convivenza civile si inscrive nel solco della tradizione filosofica che individua nell’uomo una naturale tendenza alla socialità: da Aristotele alla scolastica, al giusnaturalismo liberale moderno, fino alla teoria del costituzionalismo liberaldemocratico.

Ma se appena si riflette sul fondamento teorico delle affermazioni veronesiane, non si potrà fare a meno di notare che la socialitas naturale di cui egli parla si distacca decisamente da quella che era alla base della filosofia politica di Aristotele, San Tommaso, Grozio o Locke. Infatti per questi ultimi l’essere umano è spinto ad unirsi ai propri simili dalla ragione naturale della quale è fornito, e che gli consente di comprendere come la convivenza pacifica e regolata con gli altri sia preferibile al conflitto.

Viceversa, in base alla teoria genetica riportata e condivisa da Veronesi la tendenza all’aggregazione comunitaria, al rispetto e benevolenza per i propri simili, alla pace non deriva da una risoluzione razionale e cosciente, ma da un istinto involontario. Gli uomini, insomma, distinguono il bene dal male, l’altruismo dall’egoismo, la convivenza civile dal bellum omnium contra omnes in quanto sono determinati da una forza esterna. Una forza che è sì razionale (l’evoluzione della specie) ma rispetto alla quale gli individui non hanno nessuna parte attiva. Tutta l’elaborazione culturale e spirituale prodotta dal genere umano dalle sue origini fino ai giorni nostri non ha, in questa ottica, minimamente contribuito all’affermarsi dei princìpi etici, giuridici, politici alla base di un’organizzazione sociale sorretta dai diritti soggettivi.

A dispetto di un superficiale parallelismo, come si vede, la differenza non è di poco conto.
Se, infatti, l’universalità di alcuni criteri morali e la socialità umana sono il frutto di un processo razionale che si svolge nella mente degli individui umani e nella storia, ne deriva che quest’ultimo non si impone automaticamente ed in maniera irriflessa, ma attraverso un confronto dialettico con spinte di altra natura, anch’esse proprie della natura umana. Insomma, l’apertura naturale ad una ragione universalistica non esclude, ed anzi implica, che esista nell’umanità anche una speculare possibilità, o tendenza, a seguire spinte distruttive, egoistiche, violente, divisive. Peraltro, se la comprensione razionale si afferma, di per sé, attraverso un percorso ad ostacoli, anche il suo conseguimento non garantisce in quanto tale comportamenti conseguenti: individui e consorzi umani possono riconoscere princìpi, norme, istituzioni in teoria ma calpestarli nella pratica, nella misura in cui sulla normatività della ragione prevalgano impulsi irrazionali.

E’ proprio questo il punto centrale che lascia a dir poco interdetti nell’ottimistica filosofia genetista di cui Veronesi si fa allegramente araldo. Se gli uomini sono geneticamente ordinati al bene, alla convivenza, alla benevolenza, alla pace, allora come si spiega il “piccolo particolare” che in tutta la storia umana non soltanto il conflitto e la violenza, ma anche la gratuita crudeltà (caso unico, va ricordato, nel regno animale), siano stati costantemente protagonisti, pur dividendo il proscenio con le tendenze “aggreganti” e socializzanti? Come si spiegano i delitti, le forme di delinquenza, la schiavitù, le tirannie, le repressioni, le torture, i totalitarismi, e insomma l’onnipresente tendenza alla sopraffazione e alla mortificazione della vita, libertà e dignità umana in campo tanto pubblico quanto privato di cui la vicenda dell’umanità sembra ineluttabilmente intessuta?

A questa domanda Veronesi e i suoi autorevoli colleghi si guardano bene, com’è ovvio, dall’offrire alcuna plausibile risposta. Una teoria della bontà innata, istintuale e involontaria della specie umana si scontra infatti frontalmente con l’esistenza innegabile della conflittualità, e in ultima analisi del male, senza poter dare ad essi una collocazione filosoficamente salda.

Il loro silenzio in materia autorizza un sospetto malizioso: forse essi ritengono che le “eccezioni” ai comportamenti etici e socializzanti siano dovute ad un “guasto” nel “chip” genetico umano, e che esse si possano magari “curare” con qualche intervento medico, nell’epoca in cui l’ingegneria genetica consentirà una manipolazione illimitata del patrimonio cromosomico individuale?
In ogni caso, la questione del conflitto e della violenza umana in questa prospettiva viene indebitamente banalizzata, e quasi ridicolizzata.

La storia della civiltà umana, infatti, per quanto ottimisticamente la si osservi non può essere considerata come la pacifica applicazione di un “conato” aggregativo, ma appare quanto meno come un processo enormemente complesso, in cui princìpi universalistici si affermano attraverso epocali lotte, nel corso di molti millenni, non incontrando mai un’adesione incontrastata. In una determinata fase della storia antica fenomeni culturali grandiosi e convergenti in diverse civiltà – l’emergere di figure come Budda, Confucio, Zoroastro, Socrate, Platone, Aristotele, gli stoici, il Deutero-Isaia e altri profeti ebraici – manifestano già una tendenza alla comparsa di un universalismo filosofico ed etico. Ma si tratta, appunto, di fenomeni culturali, sorti in contrapposizione a tendenze in senso opposto fino ad allora prevalenti; e che, per di più, continuavano a convivere (con l’eccezione, non casuale, del profetismo ebraico) con l’accettazione della diseguaglianza tra popoli, ceti e caste e/o con quella della schiavitù.

E’ soltanto con la comparsa del cristianesimo, in ideale completamento del richiamo profetico del Deutero-Isaia ad un “diritto” che sarà “luce dei popoli” e a una giustizia che “durerà per sempre” [Isaia, 51, 4 e 8], che irrompe nella storia umana un universalismo totale, fondato sul valore e sulla dignità assoluti di ogni essere umano senza alcuna eccezione. Quell’universalismo condensato nella lettera ai Galati di S. Paolo: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” [Galati, 3, 28]. E sarà soltanto su tale base che prenderà forma, tra medioevo ed età contemporanea, un’etica universalistica in grado di fondare una concezione del diritto e della politica rigorosamente imperniata sui diritti fondamentali della persona.
Ma è proprio qui che si annida, forse, la chiave principale per comprendere il senso dell’enfatico ottimismo universalistico veronesiano, che altrimenti apparirebbe semplicemente come un ingenuo “panglossismo”. A ben guardare, infatti, il principale bersaglio della teoria etica “genetista” sembra essere proprio l’origine storicamente religiosa, e più specificamente ebraico-cristiana, dell’universalismo etico, politico e giuridico.

Ciò si comprende fin dall’enunciazione che Veronesi fa della questione nell’articolo citato: “Perché siamo buoni? e come sappiamo discernere ciò che è bene da ciò che è male? Sono domande a cui anche l’etica, la filosofia e la religione hanno cercato di dare risposte, spesso parziali, spesso fideistiche”. Dove, naturalmente, è chiaro che le risposte “parziali” e “fideistiche” da lui additate sono principalmente quelle, appunto, di tipo religioso. Poco dopo, egli riporta la seguente frase di un tal Steven Pinker, psicologo dell’università di Harvard: “Il senso morale non deriva dalla religione che ci viene inculcata; i principi morali che ciascuno sente di rispettare sono pre-programmati nel nostro cervello fin dalla nascita e hanno basi neurobiologiche”. Infine, Veronesi confessa che già prima dell’esposizione di queste teorie scientifiche egli ha sempre, “seppur non sperimentalmente ma intuitivamente, […] creduto […] che alcuni principi morali sono universali, scavalcano le barriere geografiche e culturali e religiose”. Soprattutto, manco a dirlo, quelle religiose.

Ecco allora cosa giace al fondo dell’idea di una morale “automaticamente” e istintivamente presente nell’uomo fin dal paleolitico, se non prima (addirittura nelle scimmie antropomorfe, a dire dei nostri luminari): il desiderio di disfarsi dell’ingombrante presenza del punto di vista religioso, altrimenti ineliminabile dal discorso sull’universalismo etico. La consueta aspirazione, insomma, a dimostrare la possibilità di fondare un’etica universale umana su basi totalmente secolarizzate, addebitando magari proprio alla religione la causa dei conflitti umani, già propria di ogni forma di positivismo scientista e di gran parte dei “messianesimi politici” contemporanei. Concordi, non a caso, nel negare la sacralità della vita umana individuale in nome delle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità.