Per vincere in Iraq gli Usa non dimentichino la Malesia

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Per vincere in Iraq gli Usa non dimentichino la Malesia

29 Febbraio 2008

Con la fine del comunismo e il disfacimento dell’impero sovietico, gli attentati dell’11 settembre e l’affermarsi di Al Qaida come fenomeno terroristico capace di minacciare l’ordine internazionale, le lunghe guerre in Afghanistan e Iraq e la vittoria di Hamas a Gaza, la storia è riemersa da un sottosuolo dove si pensava fosse finita per sempre.

Eventi dimenticati, senza regole, usciti chissà da quale meandro della memoria della terra, hanno cominciato a riempire i giornali lasciando confusi, impreparati, senza idee chiare i professionisti della politica internazionale e la pubblica opinione, spesso costretta a orientarsi in questo caos senza nessuna bussola. E’ stato come se, all’improvviso, un altro mondo fosse emerso senza chiedere permesso a nessuno, portando con sé una scia di sangue e morte tanto più insensata e micidiale perché incomprensibile: un Leviatano con la sua catena di orrori medievali moltiplicati, film pulp sul palcoscenico internazionale. Stupore che ha reso attoniti e imbambolati soprattutto gli occidentali che così hanno scoperto, e subito rimosso, di essere diventati obiettivi sensibili malgrado la loro volontà e comprensione. Senza parole e con diagnosi frettolose, e questo è ancor più grave, sembra siano restati anche i leader mondiali, chiamati a sbrigare, anche per noi europei imbelli, le faccende del mondo.

Simile impreparazione la troviamo anche nelle reazioni ai nuovi successi del surge promosso dal generale Petraeus in Iraq. La domanda dovrebbe essere solo una. Perché così tardi? Perché ci sono voluti almeno tre anni per elaborare una risposta adeguata a una minaccia non certo ignota all’esperienza americana. Di contro-insorgenza infatti si sta parlando. Di quella lotta che gli americani hanno combattuto in Vietnam per più di dieci anni, nelle Filippine, in Salvador, in Nicaragua, solo per ricordare alcuni dei teatri degli ultimi conflitti. E allora perché la leadership americana – dal Dipartimento di Stato, al Pentagono, al Consiglio di Sicurezza Nazionale – è sembrata così confusa e balbuziente? Fa impressione leggere la premessa apposta nel 2006 al diario intitolato “Pacification in Algeria”del generale francese David Galula – uno dei miti di David Kilcullen, l’ufficiale australiano consigliere dei comandi americani. Il diario è datato 1963, ciononostante nella premessa si dice che la sua pubblicazione oggi è quanto mai “tempestiva” e questo perché, pensando all’Iraq, “di nuovo ci concede l’opportunità di imparare… i principi fondamentali di una vittoriosa contro-insorgenza”. Parole identiche – “an important contribution to our knowledge of the operational testing of theories and principles of counterinsurgency” – a quelle usate nella prefazione dell’edizione di quarantatre anni prima, allora pensando al Vietnam!

Eppure, la riflessione teorica sulle guerre asimmetriche è immensa; un caso importante, tra gli altri, è l’insurrezione lanciata nel 1948 contro il governo coloniale inglese dall’Esercito di Liberazione Nazionale della Malesia di matrice comunista. Questa esperienza è spesso citata perché, a differenza della triste esperienza algerina, ha visto la sconfitta delle forze ribelli in lotta per la liberazione da una potenza coloniale. Non solo, quegli strateghi vittoriosi fornirono subito dopo buoni e purtroppo inascoltati consigli ai governi vietnamiti. Ma già prima di ritornare nel 2002 sui banchi delle Accademie militari grazie al colonnello John A. Nagl, autore di “Learning to Eat Soup with a Knife”, la vicenda malesiana era stata ben analizzata da uno dei suoi protagonisti principali, da quel Sir Robert Thompson che combatté in Malesia a fianco del generale Gerald Templer, alto commissario britannico dal 1952 al 1954. Il suo libro“Defeating Communist Insurgency” del 1965 è frutto della migliore tradizione inglese: non sistematico, empirico, ma pieno di osservazioni intelligenti e buon senso. Questa in verità mi sembra una delle grandi differenze tra le due scuole anglosassoni. Mentre gli americani, sul modello dei business studies, per agire sul piano militare hanno bisogno di teorizzazione, di procedure certe e organizzate che guidino l’azione pratica, i loro cugini d’oltreoceano si basano su una sensibilità empirica che gli deriva sia da una diversa forma mentis che da aver guidato per centocinquanta anni un impero mondiale. (Non a caso, la nuova strategia di contro-insorgenza in Iraq arriva assieme alla sua codificazione nel famoso “Counterinsurgency Field Manual 3-24” del 2007, formulato proprio dal generale Petraeus ad uso dell’esercito americano e del corpo dei Marines).

Tornando alla Malesia e alle caratteristiche principali di questa guerra, va detto, in primo luogo, che il Regno Unito, a differenza della Francia in Nord Africa e Indocina, affrontò la nascente lotta comunista con la certezza che l’impero fosse in declino, e che la forza di quella che fu la più grande potenza coloniale dopo la seconda guerra mondiale nel 1945, dopo sei lunghissimi anni di guerra, era ormai solo un ricordo. Per giunta, niente si poteva opporre alle richieste d’indipendenza provenienti dalle ex colonie come dimostravano le vicende. Si trattava solo, per modo di dire, di modulare, gestire l’inevitabile. L’obiettivo politico della lotta di contro-insorgenza inglese era quindi chiaro e ben definito fin da subito; di conseguenza, aveva ottime possibilit%C3