Perché alcuni bimbi hanno diritto alla vita e altri no?

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Perché alcuni bimbi hanno diritto alla vita e altri no?

05 Febbraio 2008

Il documento dei
ginecologi di Roma non fa altro che riaffermare un semplice principio, condiviso
da tutti: se un bambino nasce, va curato. Punto. Non è una cosa rivoluzionaria,
dato che lo diceva Ippocrate 3000 anni fa. Non è nemmeno una forzatura, dato che
i medici continuano a farlo tutti i giorni. Eppure scandalizza: perché? Perché
in qualche caso si tratta di gravidanze volontariamente interrotte? Ma il
documento non parla di queste che marginalmente e la possibilità che un bambino
nasca vivo e rianimabile da aborto non è permessa dalla legge 194 (tranne
ristretti casi di aborto per pericolo di vita), dunque non è questo il punto. In
realtà il documento afferma il principio che con il progresso medico aumenta il
numero di bambini che si può tentare di curare. E che non si possono mettere
paletti dettati da nostri criteri soggettivi per decidere chi può ricevere
assistenza.

I ginecologi romani non
hanno fatto altro che applicare l’antica e attuale deontologia medica, consci
che in alcuni Paesi si tende a limitare  la possibilità di assistere i neonati sotto
una certa soglia di tempo dal concepimento, senza che questa coincida con le
possibilità offerte dalla medicina di sopravvivere (oggi fissata a 22 settimane
di gestazione).

Qualcuno potrebbe dire:
accudendo certi bambini in alcuni casi si va contro l’autodeterminazione della coppia.
Ma fin dove arriva l’autodeterminazione, se il bambino dal primo respiro
diventa un cittadino italiano con pari diritti di ciascun altro cittadino?

Qualcun altro dirà: il
bambino avrà serie possibilità di non sopravvivere essendo estremamente
prematuro, o di riportare disabilità. Su questo dobbiamo essere molto chiari,
perché la scienza sta facendo passi da gigante in questo settore e cose che
sembravano impossibili vent’anni fa oggi non lo sono. A 22 settimane di
gestazione sopravvive circa 1 bambino su 10, e a 23 ne sopravvive 1 su 4. Non
ci sembrano percentuali basse per non dare una chance, per non provarci. Al
massimo si tratta di uno sforzo inutile. Ma, dato che –si badi bene- alla
nascita non abbiamo assolutamente strumenti né clinici né tecnici per capire se
quel singolo bambino che abbiamo davanti è quello che si salverà o quello che
non ce la farà, dalle 22 settimane di gestazione dobbiamo dare una chance a
tutti. La stessa indeterminazione vale per l’handicap, che potrà colpire o non
colpire, che sarà –quando presente- di varie entità, e  soprattutto che alla nascita non abbiamo
mezzi per prevedere. E togliamoci dalla testa che la vita dei disabili sia una
vita “ingiusta”, che non merita di essere vissuta, perché seri studi mostrano
che la qualità di vita riferita dai disabili (per esempio dagli ex prematuri o
dai portatori di spina bifida) è pari a quella degli altri: sembra paradossale,
ma è proprio così: la felicità personale non dipende dalla malattia o dal
successo civile, ma dall’ambiente, da come siamo amati. Certo, la malattia è
fatica e dolore; ma a fatica e dolore la società non può rispondere lasciando
le donne sole di fronte alla scelta tra vita e morte… e arrivederci. Ed è
singolare che in questi giorni sui giornali si sia tanto discusso su chi deve vivere
e poco su cosa fare per accogliere, per le famiglie, per i disabili, per le
barriere architettoniche, pregiudizi, bullismo.

Ha da poco compiuto 18
anni James Gill un ragazzo nato dopo 22 settimane di gestazione; in Giappone la
legge, visti i progressi scientifici, si è adeguata spostando già negli anni
‘90 il limite per l’aborto da 24 a 22 settimane. Non ci sembra di chiedere
molto: adeguarsi alla medicina, dare una chance a tutti, non dare ai genitori
la croce di una decisione che non spetta a considerazioni soggettive prendere.