Perché ci meritiamo una nuova letteratura chestertoniana
22 Gennaio 2012
Una buona parte dei lettori non si lascerebbe smontare dall’esordio della voce ‘Gilbert Keith Chesterton’ su Wikipedia italiana (la grande enciclopedia on line in più lingue): “Londra , 29 maggio 1875-Beaconsfield, 14 giugno 1936. […] scrittore, giornalista e aforista inglese. Scrisse un gran numero di opere di vario genere […]”. La ‘voce’ italiana si riscatta dal piccolo cabotaggio entrando nella Biografia con una citazione, in cui è tutto Chesterton: “Prono, com’è mia abitudine, ad una cieca credulità di fronte all’autorità come tale e alla tradizione dei nostri vecchi, bevendomi superstiziosamente un racconto che all’epoca non fui in grado di sottoporre a personale verifica empirica (test by experiment of private judgment), ritengo fermamente di essere nato il 29 maggio del 1974 a Campden Hill ”. Nell’incipit dell’Autobiografia del 1936, che mi son divertito a ritradurre, risuona la sferzante battaglia di una vita contro lo scetticismo e lo scientismo di bassa lega ma pertinaci, diffusi nella cultura media britannica, ed europea, usati per ‘confutare’ la fede cristiana – nonostante il già remoto collasso del Positivismo nelle sedi rigorose della filosofia e della scienza.
Ma l’opera di Chesterton, definito (dall’amico nemico George Bernard Shaw) ‘a man of colossal genius’, fu rivolta contro un più vasto bersaglio: il sistema dei luoghi comuni garantiti, come avviene, da intelletti e ambienti di autorità non discussa: club, riviste, accademie, palcoscenici. È nota la battuta fulminante, in anni di suffragettismo, secondo cui “soltanto uomini molto timidi non hanno paura delle donne” (in Ciò che non va nel mondo, 1910). Non si trattava del rovesciamento, alla Shaw, di una ragionevole opinione corrente ma della zampata finale di un confronto tra democratica passione maschile per il ‘cameratismo’ (lo stare e fare cose, o far niente, fumare e bere insieme, tra uomini) e il “feroce buon senso femminile”, razionale quanto autoritario censore di quello spreco, di tempo e denaro. Così per Chesterton non vi sarà scontro con quel duro governo, né timore di affrontarlo, solo se un’estrema timidezza inibisce, all’origine, nell’uomo la sua democratizzante anarchia.
La portata dell’ironia antiascetica (contro l’ascesi laica, già ma non più protestante, o spiritualistica e salutistica) è più ampia: l’elogio del solidale piacere per le piccole cose offerte dalla realtà è in Chesterton, ad ogni passo, un preambulum fidei. D’altronde sono le piccole cose che soddisfano le grandi menti (salvo mister Bernard Shaw, grande forse ma non umile).
La rete di distruzioni chestertoniane di ciò che chiamiamo oggi il politicamente corretto, ma che è di più, è visione del mondo, si estende dai grandi temi religiosi e politici al costume, alle arti e alle filosofie applicate, per dirla così. I brevi capitoli dedicati alla scuola (education) sempre in What’s Wrong with the World, in un’Inghilterra all’avanguardia, hanno ancora una freschezza che fa paura: “Secondo l’illusione oggi [1910] di moda, attraverso la education possiamo dare alle persone qualcosa che noi non abbiamo avuto. A giudicare dai discorsi si potrebbe pensare ad una sorta di alchimia, quasi che, grazie alle virtù di un intruglio [salutistico-pragmatistico-liberatorio p.d.m.], fossimo in grado di produrre per caso qualcosa di splendido, creando ciò che noi non possiamo concepire”. “[Insomma, persone bizzarre] paiono ritenere che nelle teste dei bambini possano essere inserite cose che non erano nelle teste dei genitori o in nessun’altra parte”.
Ora, fatta salva l’originalità della mente chestertoniana, va detto che è spesso privilegio delle intelligenze nel loro percorso di riscoperta della fede cristiana non tollerare più il compatto ‘mondo dato per scontato’ del costume e delle mode intellettuali, specialmente di quelle alte. L’immagine stessa che Chesterton si fa della fede e della Chiesa segue modi cattolicamente disciplinati, quanto insofferenti di percorsi ordinari, che (magari à la page) non accompagnano alla trasformazione, che è autenticazione, di sé. Nella mirabile Orthodoxy (1908, tradotta in italiano nel 1926), che appartiene al periodo di preparazione della piena adesione alla Chiesa, presentava, direi esibiva, la paradossalità cattolica, l’essere unità di contrasti, coerenza di una ineguagliabile complessità, una roccia dal disegno frastagliato in cui ogni aggetto è necessario all’equilibrio, e che si oppone, in questo, sia alla forma del classico sia all’idea moderna che la religione debba essere ‘spirituale’.
A tale ordine di Verità, che è Rivelazione del dono divino della realtà all’uomo, vincolante eppure portatrice di libertà di giudizio, e di gioia, Chesterton approdava in un instancabile dibattere e chiarire, giorno dopo giorno. Osservava in Heretics (1905):”L’uomo che vive in una piccola comunità (…) conosce molto più a fondo le feroci varietà e le irriducibili divergenze umane. (…) Non vi è nulla di ottuso nel clan; veramente ottusa è la cricca, la cerchia. Gli omini di una cerchia (…) vivono insieme perché hanno anime affini e la loro ottusità è quella della coerenza intellettuale e di una soddisfazione come quella che esiste all’Inferno. Una società grande esiste per formare delle cricche, delle cerchie (…). E’ un meccanismo volto a proteggere l’individuo solitario e sensibile da qualsiasi esperienza degli amari e corroboranti compromessi umani. (…) È una società per la prevenzione della coscienza cristiana”.
Si tratta di una originale incursione nella discussione su comunità e società, su solidarietà organiche e meccaniche, sull’intelligencija e le stesse sociétés de pensée, che attraversa l’Europa colta. Inoltre le élites della modernità urbana hanno sempre una immagine di sé come frattura e innovazione, e come culto della problematicità. Sempre in Heretics: “Il vizio del concetto moderno di progresso spirituale [dato e non concesso, per C., che esista p.d.m.] è che è sempre qualcosa che ha a che fare con vincoli spezzati, confini cancellati e dogmi rifiutati. Ma se una cosa come una crescita intellettuale esiste, deve trattarsi di una crescita verso convinzioni sempre più definite, verso dogmi sempre più numerosi. […] Quando sentiamo parlare di un uomo troppo intelligente per credere, sentiamo parlare di qualcosa che potremmo quasi definire una contraddizione in termini.
Come sentire parlare di un chiodo che era troppo perfetto per tenere fermo un tappeto o di un chiavistello che era troppo forte per chiudere una porta”. Per avanzare verso una prognosi in cui Chesterton non è isolato, quella degli ‘ultimi uomini’: “Quando [l’uomo] abbandona una dottrina dopo l’altra per un raffinato scetticismo, […] quando afferma di essersi liberato delle definizioni […], quando, nella sua immaginazione, siede come Dio senza fare propria alcuna forma di credo ma contemplandole tutte, allora con questo stesso processo sta lentamente sprofondando a ritroso nella vaghezza degli animali erranti e nell’inconsapevolezza dell’erba. Gli alberi non hanno dogmi. Le rape sono sorprendentemente tolleranti”.
Certo, le idee sono ‘pericolose’ ma (come si dice spesso, con Chesterton senza saperlo), lo sono specialmente per l’uomo privo di idee. “E’ un errore comune, credo, tra gli idealisti radicali […] insinuare che gli uomini di affari e di finanza siano un pericolo per l’impero perché troppo sordidi e materialisti. La verità è che [essi] sono un pericolo per l’impero perché possono essere sentimentali per qualsiasi sentimento e idealisti per qualsiasi ideale in cui s’imbattano”. Come si dice che per il bigotto la cura è la fede, così la cura per l’idealista sono le idee. Se i decenni centrali del Novecento parvero accogliere la lezione di Chesterton, i nostri ultimi sembrano imitare o replicare i climi vacui di una lontana fin de siècle. Per questo ci meritiamo di nuovo una chestertoniana e cristiana cura di idee esatte.