Perché con il “Salvimaio” entriamo nella democrazia post-globale
29 Luglio 2018
Ora che il governo “gialloverde” presieduto da Giuseppe Conte, dopo aver ottenuto la fiducia dai due rami del Parlamento, si è insediato nella pienezza dei suoi poteri, credo appaia evidente a qualsiasi osservatore senza pregiudizi il fatto che esso – a dispetto della sua lunga e tormentata gestazione – non soltanto rappresenta l’esito che più fedelmente di qualsiasi altro rispecchia l’opinione maggioritaria dell’elettorato italiano, ma ha ridefinito gli schieramenti e le forze in gioco nella nostra democrazia secondo uno schema analogo a quello oggi prevalente negli altri maggiori paesi occidentali.
Con una certa scaltrezza, il presidente del Consiglio, cercando di sintetizzare (impresa spesso non facile) issues e programmi ispirati dai due “azionisti” del suo esecutivo, ha colto ed enfatizzato questa capacità del nuovo governo di esprimere efficacemente lo “spirito del tempo” e la nuova contrapposizione che esso esemplarmente incarna. Una contrapposizione che trascende di gran lunga ormai quella tradizionale tra sinistra e destra, e si identifica con lo spartiacque tra establishment politico-economico-culturale e ceti sociali impoveriti, impauriti, arrabbiati; insomma tra élites globaliste e “populismi” nazionali (non a caso, dopo Salvini ora anche Conte rivendica la definizione di “populista” nel senso positivo di una attenzione per i problemi della popolazione che le attuali élites non manifesterebbero più).
Si tratta di una linea distintiva che si inserisce pienamente nella tendenza ormai puntualmente emergente ad ogni consultazione elettorale tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, e che appare essere espressione di un profondo processo di ripensamento dell’ordine internazionale da parte delle società occidentali come risposta ad una crisi economica, politica, morale altrettanto profonda. Una crisi in atto da più di un decennio, ma le cui radici affondano in tendenze risalenti almeno alla fine della guerra fredda.
Nonostante le notevoli differenze politiche e programmatiche tra Lega e Movimento 5 Stelle, è innegabile che le opinioni e i sentimenti rappresentati dalle due forze politiche oggi coalizzate convergano nell’esprimere l’insofferenza di larga parte della società italiana verso un blocco di poteri considerati come oligarchici e inamovibili, e la richiesta alla classe politica di cambiamenti di rotta inequivocabili almeno su tre punti: 1) l’esigenza di spezzare il circolo vizioso tra austerità e stagnazione economica derivante dalle regole-capestro imposte finora dal nucleo “merkeliano” dell’Unione europea; 2) la spinta a limitare e regolamentare efficacemente un’immigrazione illegale ormai percepita come fuori controllo, con conseguenze disastrose sull’ordine pubblico e sulla stessa tenuta del tessuto civile; 3) la rivendicazione sempre più condivisa di una restaurazione a pieno titolo della sovranità e dell’identità culturale nazionale, in contrapposizione alle agenzie e ai poteri transnazionali che a molti livelli cercano costantemente di ignorarle, svuotarle, renderle inoperanti.
Da questo punto di vista i primi contraccolpi dell’entrata sulla scena politica del nuovo governo si sono visti già nel cambiamento improvviso di tono (dopo le minacce e i giudizi liquidatori delle scorse settimane) nei confronti dell’Italia da parte delle istituzioni dell’UE e dei vertici dei maggiori paesi continentali, evidentemente coscienti di trovarsi di fronte ad un fenomeno significativo con il quale, volente o nolente, occorre confrontarsi. E si sono visti, parimenti, nel fatto che la nuova posizione italiana – non più in linea con l’asse franco-tedesco ma con quello dei paesi centro-orientali dell’asse di Visegrad – ha spostato immediatamente l’ago della bilancia nella discussione sulla riforma del trattato di Dublino: facendo fallire una proposta di modifica che avrebbe comportato ancora maggiori disagi per l’Italia e altri paesi mediterranei nel fronteggiare l’ondata degli immigrati illegali.
Tutti questi elementi costituiscono un dato di fatto che rimarrà sul tavolo della politica italiana indipendentemente da quelli che saranno la durata, la coesione interna e i risultati del nuovo esecutivo.
E’ possibile infatti che un governo di coalizione così eterogeneo, frutto di un sistema elettorale che favorisce la frammentazione e di un sistema parlamentare senza investitura popolare dell’esecutivo, abbia vita difficile, e manifesti ben presto delle crepe, e forse sia destinato a non durare molto. E d’altra parte fin dall’elaborazione del “contratto” di governo tra i due contraenti – documento pletorico e destinato più a tacitare i rispettivi elettorati che a fungere da effettivo, realistico programma di governo – emergono chiari segni di un approccio platealmente retorico che rischia di rivelarsi inconciliabile con politiche efficaci di crescita complessiva della comunità nazionale: in particolare, una concezione astrattamente punitiva della giustizia, e un’impostazione prevalentemente regressiva e assitenzialistica del welfare, della previdenza e del mercato del lavoro.
Ma quali che siano i risultati che in questi ed altri campi il governo “penta-leghista” conseguirà, e quali che siano gli eventuali scenari che seguiranno la sua nascita – un consolidamento della nuova maggioranza, nuove elezioni o tentativi di riportare in auge soluzioni di governo “tecniche” per restaurare equilibri precedenti – i problemi dai quali l’esecutivo è sorto e che esso pone in evidenza continueranno, nei prossimi anni, a rappresentare il campo su cui si giocherà la partita della nostra democrazia, e delle altre democrazie occidentali.
Per questo appaiono totalmente fuori luogo e fuori tempo oggi quegli esponenti delle opposizioni, dei media e della classe intellettuale italiana che si attardano a stigmatizzare il governo “gialloverde” per la sua natura contraddittoria (ovvia conseguenza, come abbiamo visto, del quadro politico e della legge elettorale), o in base a categorie ideologiche ormai obsolete (l’europeismo e l’internazionalismo novecenteschi oggi superati in blocco dai nuovi problemi suscitati dalla globalizzazione matura; i luoghi comuni della cultura politically correct ridotti a ritornelli irritanti nel momento in cui è ormai in questione la sopravvivenza stessa della civiltà europea e delle culture nazionali che la compongono). Se non vogliono essere spazzati via dalla storia e se vorranno sperare di costruire alternative realistiche al governo oggi in carica, questi soggetti dovranno accettare di misurarsi con le questioni urgenti che esso pone, e con i conflitti attuali dai quali esso è stato generato.