Perché è necessario ripensare gli stipendi dei Top manager
11 Maggio 2009
Tra le conseguenze di una crisi finanziaria ed economica per molti aspetti diversa – fortunatamente – da quella del ’29, ma, al pari di essa, di portata epocale, in tutto il mondo vi è stato un accendersi di attenzione nei confronti dei livelli di remunerazione dei manager.
In non pochi casi, soprattutto negli Stati Uniti, gli assetti retributivi del Top Management si sono rivelati affatto sproporzionati ed eccessivamente (non di rado, esasperatamente) legati al risultato contingente conseguito dall’impresa. Tale impostazione, anziché innescare un processo virtuoso, volto a favorire il miglior ritorno economico per l’azionista, ha ingenerato meccanismi perversi, finendo di divenire stimolo per spericolati (e, talora, persino, truffaldini) comportamenti dei quadri apicali delle aziende, volti a “drogarne” l’utile immediato, conseguendo così, oltre ad un crescente prestigio professionale, anche il ricco appannaggio retributivo correlato.
A fronte di questo scenario, non scevro da situazioni di criticità anche in Italia, sia pure in misura meno eclatante che altrove, suscita notevole interesse – non solo tra gli addetti ai lavori, come d’ordinario dovrebbe accadere – le risultanze dell’indagine, appena licenziata da una primaria “casa” del comparto della consulenza aziendale qual è Hewitt, sui pacchetti retributivi offerti alle posizioni di vertice delle principali 100 aziende quotate in Europa. Dallo studio emerge come, anche nel vecchio continente, sia necessario un ripensamento dei pacchetti retributivi del Top Management, in considerazione delle nuove aspettative degli azionisti.
L’indagine ha preso in considerazione la retribuzione totale diretta, composta da retribuzione fissa, retribuzione variabile annua e valore atteso degli incentivi a lungo termine (stock options, performance shares, altri sistemi di incentivazione di medio-lungo periodo).
Va rilevato come si registri una sostanziale convergenza, in tutti i paesi dell’Unione, avuto riguardo ai livelli retributivi offerti alle posizioni di vertice. Se ne può scorgere un segnale del fatto che le aziende competono per accaparrarsi questi talenti a livello internazionale e non di singolo paese. Anche la dimensione aziendale – com’è ovvio – gioca un ruolo importante sugli assetti retributivi, che tendono ad essere più elevati nelle aziende di maggiori dimensioni.
I top manager italiani considerati (circa una trentina, in organico alle principali imprese italiane) godono di una retribuzione totale sostanzialmente in linea con quella dei loro colleghi tedeschi e francesi, mentre essa risulta sensibilmente più contenuta rispetto a quanto percepito in Gran Bretagna e Svizzera.
E’ interessante notare come per la posizione di massimo vertice analizzata, l’Italia si collochi prima per quanto concerna la retribuzione fissa, che si attesta mediamente poco sopra il milione e mezzo di Euro.
Benchè il quantum finale sia simile, si registrano differenze più marcate fra i vari paesi europei avuto riguardo, invece, alla composizione del pacchetto retributivo. Le stock options (cioè l’attribuzione di un diritto di acquisto di azioni ad un prezzo prefissato, con possibilità, quindi, di incassare subito, al momento dell’esercizio dell’opzione, il maggior valore conseguito dal titolo) continuano ad essere uno strumento di incentivazione piuttosto diffuso in alcuni paesi – fra i quali il nostro – al di là del fatto che gli investitori – cioè gli acquirenti delle azioni delle imprese – non vi siano particolarmente favorevoli, prediligendo altre forme di gratificazione di risultato, come le performance shares (cioè, l’assegnazione di pacchetti di azioni, a fronte del conseguimento di obiettivi prestabiliti).
Lo studio Hewitt registra che il pacchetto retributivo è composto per tre quarti circa da incentivi di breve e lungo termine. Si tratta di un segnale del fatto che la logica di collegare i guadagni dei manager ai risultati sia – opportunamente – ben radicata nelle principali aziende europee. Questo dato è vero anche per l’Italia, ove circa il 70% del valore complessivo del pacchetto è composto da retribuzione variabile annuale e da incentivi di lungo termine.
Risulta, però, che il bel Paese è il fanalino di coda per quanto concerne il valore del bonus annuale offerto alla posizione di massimo vertice (e non solo per essa): il bonus pesa il 90% circa rispetto ad un dato medio del 145%. Va anche sottolineato che da noi si riscontrano differenze minime fra il bonus assunto come erogabile al raggiungimento dei risultati (bonus target) ed il bonus effettivamente attribuito. Questo dato indica che la struttura dei sistemi di incentivazione a breve termine è meno sofisticata in Italia, rispetto a quanto praticato in Europa e suggerisce l’opportunità di un ripensamento dei piani di incentivazione a breve termine sia per ciò che concerne il quantum, sia per ciò che riguarda gli indicatori di performance, cui collegare l’erogazione del bonus.
I piani di incentivazione a lungo termine, che hanno l’obiettivo di premiare la creazione di valore nel medio-lungo periodo, sono diffusi in tutta Europa, Italia compresa. Come detto in precedenza, lo strumento ancora più comunemente utilizzato a livello nazionale sono le stock options, benché si colgano chiari segnali di cambiamento e riorientamente verso strumenti più adeguati all’attuale situazione di mercato ed alle aspettative future. I già richiamati piani di performance shares, i piani di co-investimento ed i piani di incentivazione monetaria differita sono probabilmente destinati a diventare una realtà vincente anche in Italia, così come già accaduto in Europa.
Per la posizione di massimo vertice, nel nostro Paese il valore annuale degli incentivi a lungo termine si attesta intorno al 150% della retribuzione fissa, sostanzialmente in linea con le prassi medie rilevate nell’Unione.
Sempre in Italia, circa il 50% dei piani di stock options analizzati sono soggetti a condizioni di performance: al manager beneficiario è permesso esercitare le opzioni solo a fronte del raggiungimento di parametri di sviluppo prestabiliti.
Conclusivamente, si può rilevare come dallo studio Hewitt emerga l’opportunità di un ulteriore ripensamento interno degli assetti remunerativi del Top Management delle imprese italiane. Nell’ambito del pacchetto retributivo, la componente variabile (e, quindi, aleatoria) va ancora accresciuta, fissandone il conseguimento al raggiungimento di precisi e non effimeri traguardi aziendali. Il processo di superamento dello strumento delle stock options (tra l’altro, non più fiscalmente favorito) va accelerato, preferendo ad esso le già ricordate forme di remunerazione che maggiormente e più stabilmente legano il dirigente all’impresa per cui opera.