Perché è sbagliato dire che la Manovra 2010-2011 non ha nulla di strutturale

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Perché è sbagliato dire che la Manovra 2010-2011 non ha nulla di strutturale

01 Giugno 2010

 

Si era chiesto, da parte della sinistra, che Silvio Berlusconi “ci mettesse la sua faccia”, cioè la sua piena adesione, sulla manovra correttiva di finanza pubblica, di cui il principale regista è stato Giulio Tremonti con il particolare concorso della Ragioneria generale dello stato.

Ma Berlusconi che condivideva e condivide la necessità di una rigorosa manovra correttiva dei conti pubblici, per metter in sicurezza il nostro debito pubblico, si è recato al Quirinale per consultare il presidente della Repubblica, prima di avere firmato il decreto (o i decreti) in cui essa è contenuta. E poiché, come è ovvio, il capo dello stato non poteva esprimere ufficialmente o ufficiosamente le sue valutazioni su di essa al capo del governo, prima che questi firmasse il testo in questione, Berlusconi, con alcune correzioni, lo ha firmato e inviato al capo dello stato, rendendo noto che era pronto ad ascoltarne le riflessioni, allo scopo di varare un testo che non comportasse sue censure.

E ha fatto bene a seguire tale doppia procedura, perché in effetti il capo dello stato ha espresso alcune perplessità, a mio avviso più che fondate. E in tal modo il presidente del consiglio ha potuto far effettuare dal suo sottosegretario Gianni Letta le opportune correzioni, sulla base delle quali il decreto (o di decreti) contenente la manovra di finanza pubblica è stata firmata senza censure dal capo dello stato.

La principale correzione, quella su cui qui mi soffermo, ha riguardato lo stralcio dalla decretazione di urgenza della soppressione di enti culturali inutili e della riduzione dei finanziamenti ad altri enti culturali. Il tutto comportava un piccolo risparmio di spesa che non ha rilevanza ai fini di questa manovra.

Sarà il Ministro dei beni culturali ad occuparsi del contenimento della spesa per la sovvenzione degli enti culturali in questione e della decisione eventuale di chiuderli e di  far svolgere le loro funzioni, nella misura in cui sono utili, agli organi normali del Ministero, salvo fonderli fra loro. Ciò allo scopo di raggiungere meglio gli obbiettivi culturali, con una spesa minore di quella attuale. Ci sono due ottime ragioni a favore di questo stralcio.

La prima è di ordine giuridico-costituzionale ed è quella che ha motivato la richiesta del  presidente della Repubblica. Si tratta del fatto che un decreto legge deve contenere materia dotata di requisiti di urgenza e necessità. Un taglio di spese molto piccolo, che riguarda la soppressione o riduzione di stanziamenti di piccola entità ad un numero rilevante di enti culturali non ha alcun requisito di urgenza e necessità. Infatti queste operazioni, che non incidono in modo apprezzabile sulla manovra di finanza pubblica, dal punto di vista economico e finanziario, ove effettuate senza appropriate scelte del Ministro competente, non possono dirsi dotate di un valore simbolico atto a generare un senso di equità che  agevoli la accettazione da parte della pubblica opinione del complesso della manovra.

Lo stralcio di queste misure dal decreto è, dunque, costituzionalmente un atto dovuto. Napolitano probabilmente sarebbe potuto andare molto più in là, nella richiesta di correzioni. Infatti ho l’impressione che nel decreto vi siano altre norme, che non hanno i requisiti di necessità ed urgenza, perché non incidono in modo significativo sugli obbiettivi della manovra di finanza pubblica, consistenti di riduzione del deficit e di messa in sicurezza dei conti pubblici mediante recupero delle entrate e di contenimento significativo delle spese nonché mediante politiche per la promozione della crescita. Purtroppo, spesso i decreti legge, in quanto dotati di una corsia preferenziale, nell’iter parlamentare, vengono caricati anche di compiti che non sono a loro pertinenti. E ciò non tanto mediante gli emendamenti parlamentari, quanto mediante gli interventi ex ante delle burocrazie che hanno il compito di prepararli. 

Ma Napolitano si è limitato a poche richieste di stralcio, data la necessità che il decreto (o i decreti) sia varato in tempi brevi, in un clima di concordia fra i vertici della politica pubblica.

Il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, nella sua Relazione annuale ha approvato questa manovra, pur rilevandone limiti dal punto di vista delle misure strutturali che servono alla crescita economica. Così il premier Berlusconi ha potuto realizzare il duplice obbiettivo di smussare aspetti di essa che non condivideva, come quelli riguardanti il settore dei beni culturali a cui è preposto il Ministro Bondi che fa parte del vertice del PDL e di ottenere un consenso alla sostanza delle misure, dal capo dello stato e dal capo della politica monetaria nazionale. Così la manovra ha più di una faccia, oltre a quella del Ministro dell’economia.

Ma tornando allo stralcio richiesto da Napolitano ritengo che vi sia una ragione di metodo più profonda di quella puramente giuridica, per cui esso era opportuno. Si tratta del fatto che la razionalità, nel governo dell’economia pubblica, è per sua natura limitata perché le informazioni di ciascuno dei protagonisti sono incomplete. E nessun Ministro dell’economia o capo di governo o dello stato è in grado di elaborare la soluzione ottimale, agendo solo con la propria equipe, per quanto dotata di elevata competenza ed esperienza. Ne consegue che una politica a vasto raggio di contenimento della spesa pubblica va compiuta, il più possibile, mediante la consultazione dei Ministeri a cui ne compete a gestione. Essi vanno il più possibile coinvolti nelle azioni contingenti e strutturali di riforma. Certo, ci sono limiti di tempo che possono condizionare questi processi di consultazione. Ma ci sono anche situazioni, come quella appena discussa, in cui non si tratta di scelte urgenti, in quanto non incidono in misura sostanziale sulle dimensioni della manovra.

Un ragionamento analogo riguarda la sottoposizione al parlamento, mediante disegni di legge anziché mediante decreti, degli interventi di natura strutturale che hanno effetti di lungo termine. Quando si critica questa manovra sostenendo che da essa sono assenti gli interventi di riforma strutturale, occorre tenere presente che si tratta di un decreto legge, che riguarda i conti finanziari italiani del 2011 e del 2011. Non sarebbe stato appropriato inserire in un decreto varato a fine maggio, per ragioni di necessità ed urgenza, riforme di ampio respiro strutturale destinate ad operare dal primo gennaio del 2011, con effetti dilazionati nel tempo. La loro sede è negli allegati alla legge finanziaria per il 2011-13.

Tali riforme, per altro, sono necessarie, in particolare nel settore delle pensioni e in quello della sanità, che sono quelli in cui la nostra spesa pubblica ha una dimensione e un trend di aumento preoccupanti. Ciò anche perché già ora una parte rilevante di queste spese è coperta non da tributi sui loro beneficiari, ma dal sistema tributario statale. Il Fondo sanitario nazionale, che il governo mette a disposizione delle Regioni, nel 2010 è di 102 miliardi. A questo Fondo affluisce IRAP. La quota di  essa  sul valore aggiunto lordo del lavoro, che si può configurare come un contributo dei beneficiari alla copertura della spesa sanitaria è di circa 30 miliardi. Dunque, gli altri 72 miliardi sono tratti da altre fonti di finanziamento: ossia le imposte e il deficit pubblico. Si tratta del 4,5 % del Pil. Per le pensioni, lo stato destina agli enti previdenziali circa 75 miliardi, che si aggiungono ai contributi sociali e che sono tratti dalle imposte statali e dal deficit pubblico. Cioè ancora il 5% del Pil. Dunque il deficit sanitario e quello pensionistico sono quasi il 10% del Pil. Se a ciò si aggiunge il servizio degli interessi sul debito pubblico si arriva al 15% del Pil, vale a dire una buona metà delle entrate fiscali dello stato.

Dal 2006 al 2009, la spesa per pensioni in Italia si è accresciuta, in percentuale sul Pil, del 2% mentre quella sanitaria è aumentata dello 0,6 e quella per le “altre prestazioni sociali “ si è accresciuta di un altro 0,5%. Non si deve pensare che questa crescita abbia una giustificazione contabile nella flessione del Pil  che è molto consistente, in termini reali, fra i due anni a confronto. Infatti in termini monetari, il Pil del 2009 eguaglia quella del 2006. La crescita sul Pil di queste spese, fra i due anni a confronto, avviene a parità di Pil. E solo con riguardo alla spesa per le “altre prestazioni sociali”che racchiudono le indennità di disoccupazione, la cassa integrazione guadagni, gli interventi a favore dei poveri, si può affermare che la loro crescita in percentuale sul Pil è dovuta alla flessione del Pil in termini reali, che ha generato un maggior bisogno di tali prestazioni. Infatti la spesa per le pensioni cresce per altre ragioni, che hanno a che fare con le norme sul sistema pensionistico. E quella per la sanità aumenta per effetto di sprechi e della pressione dei fattori demografici connessi all’allungamento della vita media e dei progressi della medicina.

Qualcosa di strutturale è stato fatto, in questi due settori, nella manovra di finanza pubblica. Per il sistema  sanitario, dovrebbe essere stato stabilito una unificazione dei centri di acquisto delle Asl, in modo da evitare che per gli stessi prodotti una parte delle Asl paghi prezzi superiori a quelli di mercato effettivi. Nel settore pensionistico, è stata varato il sistema di aumento automatico dell’età di pensionamento, in relazione all’aumento statistico della speranza di vita degli anziani. Si tratta però di una misura molto scaglionata nel tempo che, per le donne, parte dai 60 anni. Dunque si tratta di misure significative, che però sono solo un primo passo.

La loro presenza nel decreto relativo alla manovra di finanza pubblica, insieme alle misure strutturali di contrasto all’evasione fiscale, dimostra che non è vera la tesi che questa manovra non abbia una parte strutturale. D’altra parte il governatore della Banca d’Italia sostiene che occorrono altre manovre strutturali di riduzione della spesa, per spianare la strada, successivamente, alle riduzioni di imposte, necessaria per avere più crescita. Draghi si è riferito all’eccesso di pressione sulle imprese di circa 6 punti rispetto alla media dell’Unione europea e a quello di altrettanto per i redditi di lavoro più bassi. Il premier ha dichiarato che condivide questa posizione e che essa è di stimolo al governo per muoversi in tale direzione. Ciò è augurabile. Ma ho l’impressione che l’opposizione abbia ingaggiato con il governo una lotta con caratteri di ostruzionismo su altri temi, come quello delle intercettazioni telefoniche, che non mi pare promette nulla di buono con riguardo alle norme economiche e finanziarie di riforma strutturale.

La sinistra sostiene che in questa manovra non ci sono riforme e che il governo di Berlusconi non intende farne. Ma la verità è che ogni volta che si tocca la dimensione eccessiva dell’economia pubblica, dalla scuola, alla sanità, alle pensioni, alle privatizzazioni delle imprese e degli enti regionali, comunali e provinciali, per citare alcune voci molto rilevanti, la sinistra  strilla e mobilita le piazze con scioperi e manifestazioni per impedire che le riforme passino.

In aggiunta, essa mobilita i suoi media e i suoi ambienti culturali, per criminalizzare i ministri preposti a queste riforme, descrivendoli come nemici del popolo, del progresso, dei valori alti. Il caso Gelmini docet.