Perché è vincente la nostra politica estera
13 Aprile 2011
Non è una stagione di rose e fiori per la nostra politica estera. La campagna mediatico-giudiziaria antiberlusconiana organizzata dai vari Boccassini, Fini, De Benedetti, Bersani & Co. incide sull’operatività del governo. Però le varie prese di posizione antitaliane di Parigi e Berlino non vanno lette come puro tentativo di approfittare della nostra debolezza. Al contrario, la motivazione fondamentale di questi comportamenti nasce da una certa fragilità elettorale di Nicolas Sarkozy e da una simmetrica elettoral-strategica di Angela Merkel: l’incapacità di assumere una posizione solidale con l’Italia esposta alle invasioni nordafricane non è frutto tanto di un’arroganza quanto della necessità di contenere il numero di decisori in una fase così complessa.
Roma non è maltrattata perché ci si approfitta di un Paese disonorato, bensì perché va ridimensionata essendo troppo centrale in troppi processi decisivi: così con la crisi greca (dove la nostra forza è stata garantita anche da banche poco invischiate, al contrario delle francesi e delle tedesche, nei debiti fuori controllo di Stati comunitari); così col patto di stabilità dove grazie anche al nostro formidabile risparmio privato abbiamo contenuto le più drastiche soluzioni tedesche; così sulle regole globali della finanza dove l’essere punto di mediazione tra Bundesbank e Fed potrebbe aiutarci a portare a casa la nomina di Mario Draghi alla Bce; così nei rapporti con i russi oggi legati ai tedeschi ma non dimentichi della funzione di Berlusconi nel frenare i più scatenati diktat petroliferi americani; così con Ankara dove si guarda a Roma più che a Berlino e Parigi per cercare di svolgere un proprio ruolo – che sarebbe decisivo – nella crisi libica, dove, a proposito, gli snobbetti che, per esempio sul Corriere della Sera, accusavano provincialmente Berlusconi di essere troppo tenero con Muammar Gheddafi, ora si trovano di fronte al loro idolo di un momento, Sarkozy, in piene trattative con il rais di Tripoli.
Sarebbe lungo analizzare i fattori che hanno reso possibile questa nostra così "disturbante" centralità: dalla condizione quasi oggettiva che consente a Berlusconi di essere indipendente dalle influenze straniere (al contrario dei sempre subalterni Prodi o Ciampi) e dal suo tratto di pragmatismo (evitando retoriche sia bellicistiche sia pacifistiche) leale (pesa l’avere affiancato gli Stati Uniti in una fase in cui tedeschi e francesi volgevano le spalle); alla solidità dell’asse dei moderati, rappresentanti dei ceti medi e popolari «spaventati» che in tanti altri Paesi europei producono tendenze di xenofobia non istituzionalizzate e destabilizzanti; alla politica economica di Giulio Tremonti che ha riequilibrato le esagerazioni scolastiche di tante tecnocrazie sempre più irresponsabilizzate.
Comunque, chi giudica con un minimo di freddezza la scena coglie la non emarginazione italiana. Certo, partendo da questo quadro è opportuno accogliere i suggerimenti del maggiore esperto di prudenza del mondo, Giorgio Napolitano, e contenere le polemiche sull’Unione europea (anche se alcune rozzezze servono a far capire che è finita la stagione delle subalternità).
Sarebbe interessante che dall’opposizione, almeno da Pier Ferdinando Casini, venisse un contributo alla difesa degli interessi politici nazionali. È disperante notare che da quelle parti l’unico che abbia colto i sentimenti popolari sia Antonio Di Pietro (che ha ricordato che va bene l’Europa, ma che c’è anche l’Italia), le cui posizioni troviamo perlopiù repellenti ma che almeno ha un’idea di quel che c’è nella testa delle persone in carne e ossa.
(Tratto da Il Giornale)