Perché fallì la mediazione di Giolitti
21 Ottobre 2013
Arrivati alla terza puntata di questo affaccio sull’Italia della grande guerra e dopo aver visto quale era il palcoscenico politico e i personaggi più influenti che vi si affacciavano non possiamo esimerci ora dal cercare di capire meglio il contesto generale, di natura storica e sociale, durante il quale questi protagonisti operarono. Si è fatto accenno nelle due puntate precedenti alla “rivoluzione industriale” che portò l’Italia ad affacciarsi, se pur timidamente, nel moderno contesto europeo equivalente. Non si è fatto accenno, tuttavia, ai costi sociali altissimi che questa svolta ha provocato. Durante questa fase l’Italia non restò immune da un cambiamento repentino e violento del proprio quadro interno. Con l’industrializzazione era nato un proletariato cittadino che, svuotando le campagne, stava mano a mano favorendo l’emergere di un fenomeno-simbolo di questi anni: l’emigrazione. Non solo infatti si assistette al massiccio spostamento da sud verso nord ma ad un autentico esodo che dall’Italia, ancora poverissima, portava le genti a traversare l’Atlantico per approdare nel continente americano.
Con le masse proletarie cittadine, sempre più globalizzate e organizzate (specialmente nel triangolo industriale) anche in Italia iniziò ad avanzare quel socialismo che già cinquant’anni prima in Europa aveva cominciato a mietere consensi. Giolitti, come si è detto, fu tra i pochi a comprendere il cambiamento velocissimo che la società italiana stava conoscendo e, con pragmatismo tutto liberale, cominciò con una serie di provvedimenti (come il suffragio universale) ad “aprire” le istituzioni anche a quella stragrande maggioranza di popolazione che non era ancora rappresentata dalla borghese e notabile classe liberale. Una lungimiranza che se riuscì, in prima battuta, ad evitare un rivoluzione bolscevica non resse, invece, al più complesso e storicamente più originale fenomeno fascista.
La situazione culturale, specchio della società d’allora, era in rapida ebollizione. Il mondo intellettuale si muoveva da decenni in un contesto arido. La generazione precedente, quella risorgimentale, immersa nelle fatiche della unificazione, aveva lasciato scoperto il fronte culturale: non è un caso che per ritrovare giganti come Leopardi e Manzoni si dovette attendere (Verdi escluso) l’emergere della figura di D’Annunzio. Fu proprio in quell’intermezzo durato pressappoco trent’anni che l’Italia perse il suo treno con la cultura e con la storia europea divenendo a sua insaputa un “recinto” totalmente bizzarro che ben presto avrebbe fatto emergere in modo devastante le contraddizioni di secoli di storia.
E fu probabilmente a causa di quel ritardo che l’emergente panorama ideologico-culturale produrrà esperimenti originalissimi come il Futurismo che, di lì a breve, si sarebbero avvicinati al nazionalismo e al populismo. Il latente rifiuto dello status quo da parte di certi settori antiliberali getteranno il seme di una pianta poi coltivata dal fascismo; il mito di Roma (con Oriani), le tendenze superomistiche nietzschiane, la frustrazione per una unificazione tutta diplomatica e avulsa dalla volontà popolare, la mancanza di una vera rivoluzione fondativa di una coscienza nazionale (topos ricorrente in Flaiano), il nazionalismo eroico ed epico (temi propri di Carducci, Pascoli e D’Annunzio) e l’esaltazione per le imprese belliche col rifiuto della pace liberale (Marinetti). Il fascismo, quindi, non fu certo un fenomeno nato dal nulla: nacque in Italia perché solo in Italia vi era questo contesto e la prima guerra mondiale non fece altro che accelerare gli eventi che avrebbero portato, inevitabilmente, verso l’azzeramento dello status quo dell’epoca.
In questo quadro, assieme al nazionalismo ed al socialismo era presente poi un’area di nicchia, naturale continuazione del pensiero liberale incarnato da Croce e dall’idealismo ma destinato, fatalmente, a scontrarsi con i movimenti di massa e con le ideologie che ad essi facevano riferimento. Non solo infatti il socialismo e il nazionalismo ma anche la timida apparizione dei cattolici (che sarebbero diventati, di lì a poco, una delle grandi forze maggioritarie del paese) contribuì allo smottamento di quell’equilibrio cinquantennale che si credeva immutabile. La cosiddetta mediazione giolittiana fallì clamorosamente: il grande errore dello statista piemontese fu quello di credere di essere in grado di mediare e sopravvivere come naturale sintesi tra quelle forze anche dopo l’introduzione del suffragio universale. Non comprese che ne sarebbe stato travolto e con lui l’intera classe liberale, destinata a soccombere e a scomparire definitivamente dalla politica che contava. Non stupisce quindi, dato questo fermento, la drammaticità con cui l’Italia si apprestava ad affacciarsi, inizialmente da semplice spettatrice, a quell’evento nuovo e devastante che fu la prima guerra mondiale. (Fine della terza puntata, continua…)