Perchè Fassino e D’Alema sbagliano su Hamas

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Perchè Fassino e D’Alema sbagliano su Hamas

Perchè Fassino e D’Alema sbagliano su Hamas

16 Luglio 2007

Non conosciamo i sistemi educativi prediletti per la
disciplina dei figli dall’On. Piero Fassino e dai dieci ministri degli esteri
mediterranei – Massimo D’Alema incluso – firmatari di una recente lettera che
propugna il dialogo con Hamas. Nemmeno sappiamo se essi considerino il sistema
penale come uno strumento punitivo, oltre che correttivo, dei comportamenti
antisociali. Ma si può supporre che l’On. Fassino non ritenga che più discolo e
delinquente sia un fanciullo, più si meriti doni e attenzioni da parte dei
genitori. O che almeno apprezzi il fatto che la riduzione della pena per buona
condotta non si da preventivamente all’assassino, ma è frutto di anni di
comportamento che attestano, nei fatti, a un cambiamento. Nelle nostre società
non rimettiamo i criminali in circolazione sperando che si comportino meglio,
senza aver fatto loro prima dimostrare un serio ripensamento dei loro crimini
attraverso un percorso lungo e doloroso, che comporta pena, sanzione, perdita
di libertà e concreta, tangibile dimostrazione di ravvedimento.

Ebbene, questa elementare regola dell’educazione dei figli e
della punizione dei criminali – si premia il comportamento che si vuole
incoraggiare, si punisce quello che si vuole scoraggiare – è stata ribaltata
dall’On. Fassino, che insieme a un coro sempre più numeroso di politici
italiani ed europei vorrebbe vedere Hamas riabilitato nonostante i trascorsi.
Fassino certo non sostiene il dialogo perchè si illude, come fa Sergio Romano,
che Hamas in fondo non è l’organizzazione fondamentalista, fanatica, e
paranoica antisemita che il suo comportamento, i suoi proclami, la sua
dottrina, e la sua strategia affermano. Dice invece che questo passo è
inevitabile, perchè non parlare con Hamas comporta ritardi intollerabili nel
processo di pace e altre sofferenze. Quindi c’è una componente utilitaristica e
strumentale nel ragionamento di Fassino, che merita considerazione.

Il problema è che non si possono separare i due aspetti –
l’essenza di Hamas e le probabilità che un dialogo dia dei frutti. Parlare per
parlare, a che serve, a meno che Fassino non auspichi un ravvedimento di Hamas
come conseguenza del dialogo, e un cambio di rotta nei comportamenti e
nell’ideologia come conseguenza. Se questo è vero insomma, per Fassino il
bagaglio ideologico e i trascorsi violenti di Hamas si ridurrebbero
all’equivalente del comportamento antisociale un bambino trascurato dai
genitori. Una disperata ricerca d’attenzione, insomma.

Fassino si aspetta che Hamas s’ingentilisca se gli viene
offerto un riconoscimento, ma in questo ignora o sottovaluta le cause del
radicalismo di Hamas. Da dove si è acquistata questo ruolo così centrale nel
processo politico palestinese dal diventare così irrinunciabile? Dall’aver
conquistato, manu militari, il controllo della Striscia di Gaza, dopo aver
creato una milizia parallela; dall’aver eliminato brutalmente i suoi
oppositori, gettandoli dai tetti delle case e freddandoli con un colpo alla
nuca in strada dopo averli catturati; dall’aver dato ospitalità a cellule di
al-Qaeda e dall’aver accolto il sostegno logistico e finanziario dell’Iran e
della Siria; dall’aver lanciato attacchi contro Israele dalla Striscia di Gaza
senza interruzione negli ultimi due anni, da quando Israele si è ritirata
unilateralmente dalla Striscia. E dall’essere stata la prima organizzazione
palestinese – all’apice del processo di pace – ad esser ricorsa ad attentati
suicidi per impedire il successo di Oslo. Questo comportamento riflette del
resto l’ideologia di Hamas: una visione paranoica del mondo alimentata da
teorie del complotto – non ultimo, il falso dei Protocolli dei Savi di Sion
che la Carta di Hamas cita; un’appartenenza alla Fratellanza Mussulmana che ne
rafforza il sentimento antioccidentale e antisemita; un culto della morte che
ha echi nel passato europeo degli anni trenta e quaranta; un’interpretazione
dell’Islam che esalta la violenza e il martirio; un disprezzo per la vita
umana; e una fede incrollabile nel dovere religioso di distruggere Israele e
nel diritto divino di creare al suo posto uno stato islamico. Di che si può
parlare allora con Hamas?

Il comportamento di Hamas rispecchia quest’ideologia, e non
la reazione all’isolamento internazionale. Fa comodo, certo, dire che
l’isolamento imposto a Hamas all’indomani della sua vittoria elettorale abbia
generato tali estremi, ma dir questo significa ignorare quanto Hamas ha detto e
fatto prima di vincere le elezioni. Del resto, la comunità internazionale –
Israele inclusa – non aveva chiesto l’impossibile ma aveva intimato a Hamas di
accettare tre semplici precondizioni come premessa al dialogo: rinuncia della
violenza, riconoscimento d’Israele e accettazione dei passati impegni
internazionali. In cambio sarebbero arrivati aiuti economici, legittimità
internazionale, dialogo, sostegno politico e quant’altro. Un’organizzazione
politica votata a scopi pacifici e con il benessere del suo popolo a cuore
avrebbe accettato quelle condizioni o almeno avrebbe adottato un comportamento
a esse conforme. Hamas ha avuto più di un anno di tempo per dimostrare, con
buona condotta, un ravvedimento rispetto al passato, ma non lo ha fatto. Non
solo, il suo comportamento si è fatto più villano e violento: il suo colpo di
stato a Gaza non è che l’ultima dimostrazione di quanto incorreggibile sia
questa organizzazione. Ora Fassino vorrebbe fare uno sconto a Hamas,
aspettandosi solo un riconoscimento de facto di Israele e una
sospensione della violenza contro Israele, a patto che Israele sospenda a sua
volta le sue attività militari. Ma Fassino si sbaglia e non riconosce, negli
esempi storici che cita a sostegno della sua tesi, le enormi differenze. Il
riconoscimento di Israele da parte di Giordania ed Egitto non venne alla fine
del loro negoziato, ma all’inizio – e i trattati di pace furono preceduti da
tali e tanti incontri pubblici e atti ufficiali tra stati da rendere la
questione del riconoscimento intrinseca nell’atto stesso di dialogare. In
quanto al dialogo tra Israele e la delegazione palestinese dei territori
inaugurato alla conferenza di Madrid a prescindere dal riconoscimento, esso fu
un dialogo talmente futile e fallimentare (durò due anni e portò a un nulla di
fatto) che lo teniamo volentieri come esempio per dimostrare la fallace natura
della strategia proposta da Fassino.

Fassino certo cerca una soluzione a un’impasse e si può
capire il desiderio di sbloccare la situazione. Ma non è parlando con Hamas che
si risolve il problema – specie perchè come nota saggiamente Piero Ostellino,
una tale mossa indebolirebbe il governo del presidente palestinese Abu Mazen,
che Israele invece ha già riconosciuto.

Bisogna invece riconoscere che l’isolamento di Hamas ha dato
i suoi frutti: ha costretto Hamas a mostrare il suo vero volto, non solo come
organizzazione terrorista, ma come movimento islamista privo di scrupoli e
violento, pronto ad allearsi con Siria e Iran e a sacrificare l’unità
palestinese e le aspirazioni nazionali pur di imporsi a Gaza. E ha spinto
finalmente Abu Mazen – con quattro anni di ritardo rispetto alla Road Map – a
denunciare Hamas per quello che sono, dei terroristi, e ad attuare la Road Map
nella Cisgiordania, ordinando il disarmo delle cellule di Hamas e cercando di
affermare l’Autorità Palestinese come unico potere legittimo. Il successo della
Cisgiordania, nel tempo, farà da contraltare a Gaza, il cui continuo isolamento
indebolirà Hamas fino a indurlo a più miti consigli o a fargli perdere il
potere.

Si tratta di un processo lungo, come è dato che sia viste le
circostanze. Ma non è un percorso futile. Lo è invece il dialogo con Hamas: non
un gesto generoso nei confronti di chi ha già mostrato ravvedimento, ma un
premio – e un incoraggiamento – a continuare a delinquere e una resa di fronte
al vil ricatto della violenza.