Perché gli operai sono sempre più soli, ora che governa la sinistra?
15 Dicembre 2007
La tragedia accaduta nell’azienda Thyssen Krupp, a Torino – con il carico di assurdo incorporato nella recente notizia di un’altra esplosione in uno stabilimento Thyssen a Terni – fa emergere il quotidiano rumore della crisi di coscienza e dell’inanità politica della sinistra che ama autodefinirsi “radicale”. Una circostanza penosa e indecente, oggi sostanziata di un corollario a dire il vero antico, che ha una storia lunga come lunghi e complessi sono stati gli anni Ottanta del secolo scorso.
Siamo nel cuore delle ristrutturazioni del mercato del lavoro, a postindustriale già maturo, e, in questa temperie storico-politica, il governo Craxi, il 14 febbraio 1984, decide per decreto il taglio di tre punti di scala mobile. Il PCI e la componente comunista della Cgil protestano. Il 9 giugno, dopo una lunga battaglia parlamentare sfociata anche nell’ostruzionismo, il PCI, all’indomani dell’approvazione del decreto sulla scala mobile, annuncia la raccolta delle firme per il referendum che dovrebbe servire a farlo abrogare. In tre mesi, il PCI raccoglie un milione di firme. Il 7 febbraio del 1985, la Corte costituzionale dichiara ammissibile, con sentenza n.35/85, il referendum sulla scala mobile, viene fissata la data dello stesso dal Presidente Pertini: il 9-10 giugno. E gli elettori danno ragione a Craxi. La sinistra conservatrice perde e, da allora, ha continuato a conservare riti e miti, parole e sentimenti incapaci di catturare la realtà e di dare voce a progetti politici decenti. Il sindacato, da allora, è la cinghia di trasmissione del conservatorismo politico e comincia a perdere pezzi, operai del settore tra i più trainanti per il Pil, i servizi, fabbriche, industrie manifatturiere, il meglio del sistema-paese.
Ecco allora che, di fronte alla tragedia di Torino, non può emergere la vera domanda, che Ingrao, intervistato da Loris Campetti del “Manifesto”, lo scorso 8 dicembre, accenna, ma manca di specificare il referente preciso: “Insieme alle lacrime, sento il bisogno di porre e pormi una domanda: cosa è stato? Cosa è accaduto? E soprattutto, di fronte al ripetersi implacabile di questa storia tragica, come risponde questo Paese?”. Ingrao fa un passo avanti, ma subito dopo due indietro: non è il Paese che deve rispondere, è la sinistra – che pretende di rappresentare ancora la defunta classe operaia e non rappresenta gli operai in carne ed ossa – e sono i sindacati, che accumulano cinque milioni di iscritti, parlo della Cgil, fra pensionati e dipendenti pubblici, pochissimi giovani, una scarsa quota di lavoro cosiddetto “precario”, che devono rispondere.
Dov’è la rappresentanza sindacale nelle fabbriche? La sicurezza nei luoghi di lavoro diventa, tutt’ a un tratto, il nuovo mantra pansindacale, dopo l’ultimo congresso della Cgil, in cui il segretario Epifani ha sciorinato nuove dottrine sul fisco, copiano la destra, e nuovi teoremi costituzionali ed istituzionali, nominando la parola “lavoro” quasi di soppiatto, in modo per così dire abusivo? Al di là della retorica e della rabbia operaia, non c’è niente di sindacalmente significativo.
Revelli, sempre sul “Manifesto”, si addolora come un poeta tragico e analizza crudamente la solitudine operaia, lamentandosi, come al solito, della durezza delle ristrutturazioni capitalistiche nella globalizzazione, ma, alla fine, non ha parole politiche nuove e non ha un linguaggio per favorire il riemergere di una nuova coscienza critica nei confronti dei ritardi ancestrali del blocco antagonista e movimentista della sinistra. Così gli operai muoiono e la sinistra piange, credendo, in questo modo, di salvarsi la coscienza. Ma chi attacca a fondo l’ultimo tabù che, da quelle parti, è ancora salvato, costi quello che costi, vale a dire il sindacato come tale, il suo ruolo in questo nuovo mondo, il grado di rappresentatività degli operai? Silenzio tombale. Appunto.
Ora, la questione non assume soltanto tonalità politiche e culturali, ma segnala anche quanto già da tempo codificato dai più avvertiti esperti di salute e sicurezza del lavoro. In un’intervista scaricabile sul sito dell’ISPESL (Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro), http://prevenzioneoggi.ispesl.it, si può leggere una significativa intervista al Prof. Laurent Vogel, giurista e docente all’Università di Bruxelles, il quale sottolinea come, in realtà, un “approccio mediterraneo” non sia mai esistito veramente e come siano “le dinamiche sociali, più del contesto culturale, ad avere un ruolo essenziale quando si analizzano i sistemi di prevenzione”. Vediamo quali sono i fattori in gioco: il ruolo dello Stato e la capacità di fare rispettare la legalità; il ruolo delle organizzazioni sindacali e la loro capacità di definire una strategia autonoma per la salute e la sicurezza; la pressione sociale per ridurre conflitti e disuguaglianze, etc. Dunque, anche per gli esperti, il ruolo del sindacato è imprescindibile e deve sviluppare iniziative autonome, senza delegare tutto ai poteri istituzionali e senza raccontare favole come ha fatto Rinaldini in un’intervista al quotidiano on line “Affari italiani”: “Saremo ancora più determinati nella difesa della salute dei lavoratori”. “Salute dei lavoratori”, meglio dire: la vita dei lavoratori e la loro dignità. Non c’entra niente neanche la normazione, che molti vorrebbero quasi soffocante, Damiano ha messo in piedi un impianto semipoliziesco e le cose non funzionano.
Il fatto è che la questione operaia è diventata una nuova questione e tutta connessa al mondo attuale, dunque anche alla globalizzazione, laddove i sindacati e le aggiunte sinistre “radicali” sono impegnate nella difesa della riserva indiana del contratto nazionale e dei salari, come se esistessero soluzioni automatiche in un mondo ormai completamente integrato. La retorica non costa niente. Se ne sono accorti anche i più attenti lettori di sinistra e i più sensibili al problema della sicurezza nei luoghi di lavoro, basti aprire il forum del sito http://ww.diario-prevezione.net, per rendersene conto. Anche giorni fa ci sono stati caduti sul fronte del lavoro, “morti bianche” come si usa definirle. Gabriele Polo, il direttore del “Manifesto” ha giustamente scritto che non basta un consiglio dei ministri per rimettere al centro la realtà del lavoro. Ci vuole altro. La politica. Che non c’è. Lo sa anche un filosofo della politica colto e preparato come Revelli. Lo sanno tutti e giocano la carta della strategia della rassicurazione, con la simbologia identitaria, il logo “quotidiano comunista” e simili amenità. Intanto, gli operai sono sempre più soli e abbandonati da chi li dovrebbe adottare come parti di un unico corpo di domande e interessi, bisogni e dolori. Non sono, queste, morti bianche.
Sono morti rosse. Morti che gridano ancor più vendetta al cielo, dopo la pagina indecente di finto strazio e sgomento da parte del cinico presidente del consiglio che ci tocca sopportare, speriamo ancora per poco. Si leggano quelle righe, pubblicate da “La Stampa” che qualsiasi analista del linguaggio definirebbe finte, impomatate, piene di cordoglio istituzional-farsesco, nel pieno rispetto degli stilemi prodiani. “Oggi è il giorno del dolore e del distacco più difficile”. Chiusa da registrare nella memoria: “Il sacrificio di Angelo, Bruno, Antonio e Roberto non deve essere vano. Morire così, nel 2007, è inaccettabile. Ed è per questo che oggi non è solo il giorno del dolore. Ma anche quello dell’omaggio e della promessa: la sicurezza del lavoro e dei luoghi di lavoro diventerà il primo dei nostri doveri”.
Dopo aver attaccato il governo Berlusconi per non aver fatto abbastanza per controllare la sicurezza dei luoghi di lavoro, dimenticando l’assunzione di molti nuovi ispettori qualificati nella legislatura precedente, oggi registriamo che il presidente del consiglio Romano Prodi si accorge che forse c’è qualcosa che non va, nonostante la presenza di un sindacalista al ministero del lavoro e di una pattuglia numerosa di sindacalisti di sinistra in Parlamento. Forse c’è qualcosa che non va. In Consiglio dei ministri si è parlato dello scandalo di ispettori, già di per sé non molto qualificati, così si dice, che, per giunta, fanno i consulenti delle imprese, con evidente conflitto di interessi e contraddizione patente. Solo ora si accorgono lorsignori che il loro sistema di controlli su chi dovrebbe controllare è alla frutta e solo ora si accorgono che in Italia esistono gli operai non solo per marciare nelle piazze, ma anche per lo sviluppo del Paese. I dolenti giornalisti del “Manifesto” scrivono di “solitudine degli operai”. Ora sanno anche chi ha accresciuto la distanza dei lavoratori dipendenti dalla società e dalle istituzioni. Si chiamano tecnocrati o anche boiardi di stato. Il più cinico di essi sta a Palazzo Chigi.