Perché il futuro dell’Europa dipende dal coraggio di fare le riforme
19 Febbraio 2010
Indipendentemente dal “se” e dal “come”, l’Europa salvi la Grecia dal rischio default, sarebbe opportuno discutere di “se” e “come” salvare la costruzione dell’Unione Europea. La crisi di Atene ha in un certo senso sancito il fallimento della UE dei tecnocrati: ad Herman Van Rompuy e Jose Manuel Barroso, rispettivamente presidente del Consiglio Europeo e presidente della Commissione, viene concesso di tenere le conferenze-stampa che seguono i vertici politici, ma non di incidere sulle decisioni reali. Queste sono prese a Berlino, dopo una telefonata a Parigi e qualche sms inviato in giro per il Continente: la crisi greca evidenza come il rilancio dell’esperienza comunitaria sia possibile solo se si scioglie il nodo della legittimità democratica ed il peso politico delle istituzioni comunitarie.
Alla debolezza politica dell’Unione, si accompagna oggi l’incompiutezza del processo d’integrazione monetaria. Se la perfezione non esiste ed è praticamente impossibile ritrovare nella realtà le condizioni di un’area monetaria ottimale (come definite decenni fa dall’economista Robert Mundell), tanto che nemmeno gli Stati Uniti d’America possono davvero essere considerati tali, l’Europa ha evitato per un decennio di implementare quelle riforme che avrebbero permesso il consolidamento dell’unione monetaria. Avere una moneta unica nei portafogli di Lisbona, Amsterdam ed Atene non rende il Vecchio Continente una buona area monetaria. Quando una regione appartenente ad un’unione monetaria sperimenta una fase di recessione, non disponendo della leva del cambio, ha come valvola di sfogo l’emigrazione dei suoi lavoratori verso altre regioni dell’area. Mentre in America questo meccanismo funziona da sempre (il 25 per cento degli americani lavora in uno stato diverso da quello in cui è nato), nell’area-euro è praticamente assente (1-2 per cento). Ed è interessante notare come, nel caso dell’Irlanda, la valvola di sfogo sia e sia stata la Gran Bretagna, vale a dire un paese non aderente alla moneta unica.
Dopo anni in cui ci siamo illusi che potesse bastare un accordo tra gentiluomini come il Patto di Stabilità (“stupido” e “rigido” l’aveva definito Romano Prodi da presidente di Commissione, ed aveva ragione), la crisi economico-finanziaria degli ultimi tempi ha presentato il suo conto amaro. Ci si può “permettere” una moneta unica ed una banca centrale forte ed indipendente solo se si sceglie di avere ciò che l’Europa oggi non ha: un unico mercato del lavoro e dei servizi, aperto e flessibile, ed una gestione integrata dei sistemi di protezione sociale, come suggerisce Mario Seminerio su Libertiamo. Insomma, riforme che richiederebbe un coraggio politico che i governi nazionali europei non sembrano oggi possedere.
Accanto a questo, appare quanto mai necessaria l’istituzione – lo scrive ad esempio Barry Eichengreen in un articolo pubblicato su Project Syndacate – di un fondo europeo per le emergenze sul modello del Fmi, capace di condizionare eventuali bail-out di paesi in crisi a rigide condizioni economiche e finanziarie, magari attraverso temporanei “commissariamenti” della politica economica della realtà in crisi. Anche qui, le ipotesi di archittettura istituzionale si scontrano con la dura realtà della politica: è davvero possibile commissariare un paese sovrano? I cittadini greci o di un altro paese in crisi accetterebbero i commissari di crisi provenienti da Bruxelles? Come scrive Eichengreen, l’unica possibilità che ciò possa avvenire è che tali commissari abbiano peso politico, che abbiano un mandato forte di un altrettanto forte parlamento europeo.
Ancora una volta, il futuro dell’Europa, le regole per il suo funzionamento e le riforme da implementare sono condizionate dall’unica grande incognita: la legittimità politica dell’Europa.