Perché il nesso tra Primo maggio e festa del lavoro non è più valido

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Perché il nesso tra Primo maggio e festa del lavoro non è più valido

01 Maggio 2008

Le enciclopedie
ricordano che la Festa dei lavoratori, detta anche Festa del lavoro,
intende ricordare, il primo maggio d’ogni anno, l’impegno del movimento
sindacale ed i traguardi raggiunti in campo economico e sociale dai lavoratori.

Convenzionalmente, l’origine della festa
risale ad una manifestazione organizzata a New York
il 5 settembre
1882. Ma a far cadere
definitivamente la scelta sul primo maggio, e non sul 5 settembre, furono i
gravi incidenti accaduti nei primi giorni di maggio del 1886 a Chicago
e conosciuti come rivolta di Haymarket. Questi fatti ebbero
il loro culmine il 4 maggio quando la polizia sparò sui manifestanti provocando
numerose vittime. L’allora Presidente Grover
Cleveland
ritenne che la festa del primo maggio avrebbe potuto
costituire un’opportunità per commemorare l’episodio. In Europa la
festività del primo maggio fu ufficializzata dai delegati socialisti della Seconda Internazionale riuniti a Parigi nel 1889 e ratificata in Italia due anni
dopo.

E’ utile ricordare
le origini della Festa del Lavoro poiché ciò mostra come sono intrinsecamente
connesse alle prime fasi di quella che è stata l’epoca dell’industrializzazione
trionfante , il periodo in cui il sorgere (ed il fiorire) dell’industria
manifatturiera hanno portato alla nascita del diritto del lavoro (in termini,
in primo luogo, di orari e, successivamente, di sicurezza, di tipologie di
rapporti contrattuali, di libertà di associazioni sindacali e via discorrendo).
E’ ancora valido questo nesso? In un’Europa in corso di de-industrializzazione
ed in cui si appannano sempre più le differenze tra lavoro dipendente ed autonomo?
In un contesto in cui meno di un terzo dei lavoratori dipendenti sono iscritti
a sindacati e la metà circa di chi fa parte di un’organizzazione sindacale è
già in pensione?

Sono
interrogativi che occorre porsi perché le manifestazioni della Festa del Lavoro
non siano unicamente una piacevole kermesse, un’occasione gioiosa per stare
insieme, ascoltare un concerto, ballare e bere un bicchiere più del solito,
ascoltando discorsi sul passato, ma abbiamo un significato in linea con l’epoca
in cui viviamo e con le prospettive per il futuro (quali riusciamo ad
intravederle).

Sono
domande implicite in un bel lavoro della George Mason University, una
roccaforte del pensiero liberal-liberista dove, però, si riflette a lungo pure su
queste tematiche, Nell’analisi, peraltro ancora disponibile unicamente in forma
preliminare (sarà pubblicata in autunno), Roger Congetlon e Feler Bose
dell’istituto di studi sulle scelte collettive non trattano direttamente della
Festa del Lavoro ma di uno dei suoi risultati principali: la nascita e la
crescita dello stato sociale. Utilizzando i dati sia americani sia dei
principali Paesi europei ne tracciano l’espansione tra il 1960 ed il 1985; in
quel periodo la proporzione della spesa pubblica a fini sociali è raddoppiata
in Europa occidentale ed aumentata del 40-50% in gran parte degli altri Paesi
Ocse. Da allora o ha smesso di crescere oppure ha cominciato a fare marcia
indietro. Di pari passo, il diritto del lavoro è diventato sempre più
stringente sino alla metà degli anni Ottanta quando è iniziata prima una
graduale ricerca di scappatoie (nel 1993 dirigevo l’ufficio per l’Italia
dell’Organizzazione internazionale del lavoro ed ospitai a Palazzo Aldobrandini
a Roma un seminario che aveva proprio come tema “la fuga dal diritto del
lavoro”) e successivamente un percorso riformista verso una sempre maggiore
flessibilità.

A
conclusioni analoghe giunge un altro lavoro, appena pubblicato dall’Istituto
tedesco di ricerche economiche (il Diw di Berlino) , lo studio di Henning
Lohmann relativo allo stato sociale ed alle istituzioni del mercato del lavoro
in 20 Paesi europei (DIW Berlin Discussion Paper N 776) . E’ un’analisi
rigorosamente quantitativa che utilizza dati micro-economici dell’inchiesta
Eurostat sui Redditi e le Condizioni di Vita (UE-SILC 2005) e dati
macro-economici Ue e Ocse. Lo studio mette in luce come in questi anni il
problema centrale non siano tanto le condizioni di lavoro quanto la crescita in
Europa di un fenomeno che si pensava fosse confinato oltre Atlantico: quello
dei “working poor”, ossia dei lavoratori poveri – che non ce la fanno ad
arrivare neanche a metà mese e che vivono in condizione di insicurezza. Il
carattere quantitativo dell’analisi consente non soltanto di raffrontare le
differenze tra un Paese e l’altro ma anche in che misura le differenze
istituzionali nelle modalità di stato sociale e di contrattazione collettiva incidono
sul fenomeno. Una conclusione interessante (e su cui i sindacati, specialmente
quelli italiani, dovrebbero meditare) è che la contrattazione collettiva
nazionale centralizzata non incide a sufficienza sulla riduzione dell’incidenza
dei “working poor”.

Si possono
ricordare altri studi ed altre analisi recenti, sempre tendendo conto – come ci
ammonisce un bel saggio dell’economista giapponese Talenori Inoki – che in
questi campi la disciplina economica deve allearsi con altre discipline (come
la sociologia, la psicologia di massa, l’etica) per potere afferrare i
fenomeni.

 In sintesi, nei Paesi ad alto reddito
pro-capite ed ad economia di mercato, sarebbe utile che in generale il tema
fondante del Primo Maggio sia come affrontare, ridurre e ove possibile
debellare il nodo dei “working poor”, ormai centrale tanto agli Usa quanto
all’Europa. A questo tema comune a quasi tutti i Paesi indicati si aggiunge per
l’Italia quello della sicurezza sul lavoro, dato che abbiamo il triste primato
delle “morti bianche” e degli incidenti sul lavoro nell’Ue.

In tal modo, il
Primo Maggio avrebbe contenuti non soltanto attuali ma eloquenti per tutti.