Perché In Italia non ci sono “antiliberali”

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Perché In Italia non ci sono “antiliberali”

06 Giugno 2011

Nel nostro paese, a differenza che in Francia, manca uno schieramento politico e culturale che inalberi la bandiera dell’antiliberalismo. Sì, ci sono gruppuscoli e studiosi che come gli émigrés di Coblenza non hanno nulla dimenticato e nulla perdonato ma seguitano, imperterriti, a guardare il mondo con gli occhi di Lenin o di Gramsci ovvero di un marxismo, per così dire, "antagonistico". Ne costituisce un caso da manuale – assieme all’imprevedibile Toni Negri – Domenico Losurdo, un docente universitario di grande cultura, autore di una discutibile ma informatissima Controstoria del liberalismo (ed. Laterza). A ben guardare, però, da noi l’antiliberalismo dichiarato non è molto "popolare": non fa scuola neppure fra i post-comunisti. La ragione è storica e culturale. Già prima dell’avvento del fascismo, infatti, erano sorte – tra gli oppositori al regime – "voci di sintesi", tentativi generos, ma non pertanto solidi e coerenti sotto il profilo teorico, di ricongiungere le famiglie socialista e liberale, mobilitandole entrambe contro la dittatura e impegnandole a convergere su un programma comune di ricostruzione materiale e morale della nazione.

In particolare il Partito d’Azione è stato all’avanguardia in questa fabbrica della sintesi repubblicana. Gli azionisti, in proporzione alla loro consistenza numerica costituivano il gruppo che si era più prodigato nella Resistenza e che in seguito, con i suoi intellettuali c storici, filosofi, giuristi – aveva contribuito, più di altri, alla stesura della Costituzione. La loro filosofia politica si rifaceva soprattutto alla formazione antifascista in esilio Giustizia e Libertà, che aveva trovato il suo manifesto nel saggio di Carlo Rosselli, Socialismo liberale (1930). Si trattava di un mondo composito, in cui confluivano anche altre famiglie ideologiche, come il movimento liberalsocialista di Guido Calogero e Aldo Capitini, i "liberal" — ma allora non si chiamavano così — della sinistra liberale e democratica, i federalisti libertari, i socialisti non riformisti ma il "termine fisso di eterno consiglio" rimaneva l’esperienza giellista. Quando in seguito a un clamoroso insuccesso elettorale (2 giugno 1946), il Partito si sciolse, i suoi intellettuali si spalmarono su tutto l’arco della sinistra – dal Pri al Pci, dal Psdi al Psi. Ma fu soprattutto nel partito socialista e nelle sue correnti più spostate a sinistra (e meno legate, quindi, alla grande tradizione riformista di ‘Critica Sociale’) che i leader del movimento – generali senza esercito, come vennero ironicamente chiamati – finirono per confluire. Non intendo certo sopravvalutare il peso che vi ebbero ma è innegabile che, sul piano della retorica ovvero dei simboli e della "formula politica" – per adoperare l’espressione di Gaetano Mosca – che identificano uno schieramento politico, conseguirono il loro scopo, quello di "liberalizzare" (a parole) il socialismo e di "socializzare" il liberalismo. Specialmente dopo la caduta del Muro di Berlino, quando nessuno, a sinistra, osava proclamarsi "antiliberale" (i nostalgici rimasero una sparuta minoranza) ma nessuno, d’altra parte, pensava di dover fare sul serio i conti col fallimento del "socialismo reale", la formula liberalsocialista venne in soccorso agli sconfitti della storia, offrendosi come la comoda risorsa ideologica che consentiva di non essere coinvolti dal crollo della casa madre sovietica – il burocratismo, la dittatura del partito sulle masse e del segretario generale sul partito? – e di conservare tutte le tradizionali riserve nei confronti del ‘mercato selvaggio’, delle ingiustizie derivanti dal laissez-faire, delle ineguaglianze sociali etc. Innegabilmente tra i comunisti e i fautori della terza via vi erano stati contrasti talora violenti – specie nell’immediato secondo dopoguerra quando i primi temevano ancora l’affermazione elettorale dei secondi, soprattutto nella numerosa piccola borghesia intellettuale della penisola – ma anche allora le icone del "liberalismo rivoluzionario" — a cominciare da Piero Gobetti, assai stimato dal più ortodosso dei segretari dei partiti comunisti occidentali, Palmiro Togliatti —funsero da collanti nascosti che inibivano il discredito di tutte le famiglie liberali italiane en bloc.

Il secondo ‘89 e la vicenda di Tangentopoli che azzerò il Psi, il più antico partito (assieme a quello repubblicano) della storia parlamentare italiana, fecero precipitare un embrassons nous che, per tanto tempo, non si era realizzato nei fatti ma covava indisturbato nell’empireo delle idee.

Grazie all’acquisizione dell’eredità azionista, con le sue carte in regola nel rifiuto netto dei metodi antidemocratici e delle guide carismatiche e con le sue istanze riformatrici, quella che un tempo era stato la "sub-cultura comunista" (subcultura in senso sociologico, beninteso),

a) da una parte, dinanzi alla fine dell’Unione Sovietica, poteva assumere un atteggiamento quasi di indifferenza – "cosa c’entriamo, noi comunisti italiani, noi che abbiamo sempre rivendicato la nostra diversità e criticato le degenerazioni burocratiche del sistema, al punto da sostenere, con Enrico Berlinguer, che in Russia non c’era il socialismo ma, tutt’al più, elementi di socialismo?" (la caduta dell’impero rosso, d’altronde, venne accolta con visibile sconcerto da Norberto Bobbio: "e ora chi si farà carico dei dannati della Terra", scrisse su La Stampa?)

b) dall’altra, quando il rasoio di Mani Pulite eliminò dalla scena il partito socialista e gli altri piccoli partiti laici, poteva offrirsi generosamente come il collettore naturale di tutte le schiere intellettuali, impegnate da vent’anni, a stabilire collegamenti di confine e piattaforme d’intesa tra Psi, Pci e Sinistra indipendente – esemplari, sotto questo aspetto, le figure di Giuliano Amato e di non pochi notabili repubblicani (la vecchia componente riformista del PSI, invece, si ritrovò nel centro-destra, portandovi in dote la maggior parte del vecchio elettorato craxiano, ma questa è un’altra storia).

Oggi il quadro a sinistra appare molto semplificato anche perché nel Pantheon repubblicano sono rimaste soltanto le statue degli eroi dell’azionismo: Gobetti, Rosselli, Ernesto Rossi, Vittorio Foa, Altiero Spinelli, Norberto Bobbio. Chi si ricorda più dei capi storici del Pci, di Ruggero Grieco, di Emilio Sereni, di Umberto Terracini, di Mauro Scoccimarro, dello stesso Giorgio Amendola (una delle menti politiche più lucide del comunismo italiano), di Giancarlo Pajetta? Solo di Palmiro Togliatti, il Migliore, si parla ancora qualche volta per dire che, in realtà, era un ‘riformista’ sotto mentite spoglie staliniste. Ribadisco, vi è sempre una minoranza dura e pura, che continua a ispirarsi al marxismo ortodosso e a rivendicarne l’intatta validità, nonostante le secche repliche della storia, ma il grosso della cultura anticapitalista e antiborghese di un tempo si riconosce, ai nostri giorni, in un credo comune inteso fare dell’antifascismo azionista (con le sue sintesi epocali) il fondamento sia della Costituzione repubblicana sia della "religione civile" degli italiani — anche se molti diffidano della religione civile, confondendola con la "religione politica". Questa volta la ciambella è uscita col buco. La sintesi azionista è diventata, infatti, l’istanza suprema di legittimazione etico-politica dei partiti in competizione per il potere (col risultato, ad es., sul piano culturale, che gli avversari politici diventano "nemici oggettivi" se avanzano riserve nei confronti di quella che Renzo De Felice, chiamava la "vulgata antifascista").

Bisogna avere il coraggio di non nascondersi dietro un dito. Nel mare magnum, per fortuna sempre agitato, della sinistra si è formata una vera e propria "corrente del golfo" che trova i suoi organi di stampa, soprattutto, in Repubblica e in periodici come MicroMega e che ha il potere di fare il bello e il cattivo tempo, di condizionare la temperatura delle acque e i naufragi delle imbarcazioni che non seguono il suo corso. Si tratta di una vera e propria scuola di pensiero o se si preferisce di un brain trust che al di là delle diverse provenienze, è in grado di foggiare il ‘senso comune’ della sinistra. Ne fanno parte giuristi come Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky, filosofi del diritto come Luigi Ferrajoli e Danilo Zolo, filosofia della politica come Michelangelo Bovero e Alessandro Ferrara, storici delle dottrine politiche come Massimo Salvadori e Nadia Urbinati, storici e letterati come Adriano Prosperi e Luciano Canfora, per non parlare degli scienziati politici, dei sociologi, degli operatori del mondo dello spettacolo (cinema e teatro) e della televisione sedicente "non commerciale": per tutti la libertà liberale è qualcosa di sacro e di irrinunciabile, "nel paese che diede i natali a Luigi Einaudi e a Piero Gobetti", ma per tutti è altrettanto scontato che, per essere concreta e liberatrice, la libertà deve unirsi in matrimonio con l’eguaglianza, anzi diventare tutt’uno, dando vita a una sorta di ermafrodita del concetto — Benedetto Croce parlo più di mezzo secolo fa di "ircocervo". Si aggiunga che, a benedire le nozze, viene chiamato regolarmente, un invitato tenuto in gran conto, lo "spirito libertario" che, dopo aver celebrato i suoi trionfi nel primo sessantotto ("è vietato vietare!"), ha continuato a lavorare ai fianchi del "pensiero unico repubblicano", immettendovi spesso dosi massicce di laicismo divisivo e fanatico ma, soprattutto, ingenerando l’idea che "libertario" e "liberale" siano quasi sinonimi, giacché a ispirare entrambi sarebbe l’insofferenza contro ogni tipo di potere –" né Dio, né padrone né in Cielo né in Terra…" v e quindi contro ogni ordine costituito. Nessun sospetto sfiora questa "scuola minore" di pensiero che il liberale (classico) non è un anarchico prudente ma un nemico del potere arbitrario e che non è allergico all’ordine costituito ma solo all’ordine costituito che non garantisce i diritti fondamentali posti da John Locke a fondamento del "governo civile"– libertà, vita, proprietà.

Nella festa no stop delle ritrovate armonie liberalsocialiste, non c‘è limite agli accessi: purché si esalti il binomio "libertà e (è) partecipazione", possono entrare tutti, e può persino capitare che un Franz Fanon del profondo Sud, Nicola Vendola, possa venir riguardato come un amico e un alleato prezioso. D’altra parte, non è forse vero che il manifesto del gruppo più antagonista dell’arco parlamentare, il Sel (Sinistra, Ecologia e Libertà) da lui guidato, cita una sola volta il termine socialista (ma in un accenno al "partito socialista") e mai il termine "comunista", mentre "libertà" viene citata trentadue volte ed "eguaglianza/diseguaglianza" solo cinque volte? Il vecchio ircocervo azionista ha scavato bene, quindi. E con risultati non poco paradossali. Mi limito a citare la riluttanza di molti intellettuali, che si richiamano al liberalismo, a far posto, nella categoria, a un pensatore come Friedrich A. Hayek. Si è verificato perfino il caso del direttore di una rivista, ispirata fin nel titolo alla tradizione liberale, (sic!), che ha proposto di espellere Hayek dal "circolo" liberale! Si badi bene, nel trafiletto dedicato all’autore della Via verso la servitù e pubblicato sul quotidiano storico della borghesia italiana, il Corriere della Sera, non si è sostenuto che Hayek, uno dei più grandi pensatori del XX secolo, va ascritto alla species "liberalismo conservatore", come potrebbe essere legittimo dire (non dando alcun peso, peraltro, al saggio Perché non sono un conservatore) ma se ne è contestata l’appartenenza stessa al genus liberalismo!  Sul Manifesto Augusto Illuminati non avrebbe espresso giudizi meno sprezzanti.

Alla luce di questi rilievi, non meraviglia che il liberalismo, in Italia, abbia ricevuto una sorta di salvacondotto da parte dell’intellighentsia orientata a sinistra. Come si può costituire un’associazione come la Fondation Copernic, nata in Francia allo scopo di contrastare l’ideologia liberale ovunque essa si annidi, in un paese come il nostro in cui uno degli esponenti più autorevoli dell’antifascismo liberale piemontese, il gobettiano Franco Antonicelli, finì, nel 1968, eletto al Senato come indipendente nella lista del Pci-Psiup per il collegio di Alessandria-Tortona? La Sinistra indipendente non risparmiava le critiche ai comunisti al potere nell’Europa Orientale e in Russia (nei confronti della Cina di Mao c’era più indulgenza) ma quanto a difesa intransigente dello spirito dello "spirito dell’antifascismo" e a richiesta di  profonde "riforme di struttura", non era inferiore al Pci o alla sinistra del Psi: in un certo senso poteva ben dirsi la suocera del socialismo non riformista.

Ma è poi davvero avvenuta la conversione liberale del campo socialcomunista? E’ una questione che non può essere affrontata in questa sede e che ci porterebbe su un altro piano di discorso col rischio di mal distinguere i "giudizi di fatto" dai "giudizi di valore". Un fatto, però, sembra incontrovertibile: un risultato sicuro del "connubio" tra Piero Gobetti e Antonio Gramsci (l’ho chiamato "gramsciazionismo" attirandomi la critica sferzante di Ezio Mauro e di altri custodi delle sacre memorie antifasciste) è stata la scissione del mondo liberale  tra una parte attratta da una sinistra che "non può non dirsi liberale" e una parte costretta a confluire in una destra di ex democristiani, di "moderati" in senso lato, di statalisti con juicio, di post-neofascisti, di monarchici, di neo-clericali etc. In entrambi i casi, le due anime del liberalismo hanno recato in dote qualche gioiello di famiglia ma, in entrambi i casi, hanno fatto la figura dell’aristocratica decaduta chiesta in sposa dal ricco bottegaio per portare in casa un "tocco di classe".