Perché in Sicilia la campagna elettorale va per conto suo
28 Marzo 2008
Si respira una strana aria in Sicilia. La vittoria di Lombardo e quindi del centrodestra se da un lato è data per certa, dall’altro lato non è accompagnata dagli entusiasmi che una tale campagna vittoriosa dovrebbe avere. Anzi, se non fosse per l’impegno dei singoli candidati per un prestigioso posto all’Ars (di quelli che cambiano la vita da così a così), a stento si direbbe di essere in campagna elettorale. Tante variabili concorrono a determinare questa strana anomalia tutta siciliana, e la sensazione è che queste consultazioni provocheranno un piccolo terremoto per la politica dell’isola.
Pare avviarsi sul viale del tramonto Totò Cuffaro, fino a ieri dominus incontrastato e oggi appeso ad un filo per l’elezione in Senato, che giorno dopo giorno appare sempre più improbabile. Il 9,6% del Senato alle scorse politiche sembra un miraggio, in un partito che ha visto svuotarsi quasi completamente i quadri dirigenziali e ha subito la perdita di tanti, troppi uomini tra consiglieri provinciali ma soprattutto regionali, finanche assessori. In Sicilia orientale l’Udc è praticamente scomparsa, mutilata dalla defezione di Drago e Mancuso consumatasi ormai qualche settimana fa, mentre sull’altro versante Cuffaro e gli ultimi fedelissimi sono impegnati in un ultimo assalto, decisivo per poter proseguire l’esperienza politica.
C’è poi un’altra questione scottante, quasi traumatica: nessuno lo dice, ma il Pdl siciliano continua a non gradire la candidatura di Lombardo alla carica più alta per tante ragioni. Non vale il parallelo tra Lega ed Mpa, quest’ultimo essendo una riedizione dell’Udc e dei tanti partiti bonsai orbitanti intorno alle nostalgie democristiane. Fi e An, convinti di poter finalmente ottenere il diritto di governare in prima persona l’isola, non hanno digerito l’idea di ritornare punto e a capo, cedere il passo al pacchetto di voti di turno. La loro rassegnazione li porta a concentrarsi soltanto sui loro candidati, e fatta eccezione per l’apertura della campagna non si è più vista una manifestazione congiunta tra i leader.
Si prepara una sorta di “rivoluzione silenziosa”: all’indomani delle elezioni ci si renderà conto che, gattopardianamente (d’altronde siamo sempre in Sicilia), tutto sarà cambiato per non cambiare nulla. Mentre il panorama nazionale vedrà affermarsi solidamente l’embrione del bipartitismo, e in questo avrà contribuito in maniera determinante proprio la Sicilia che da roccaforte Udc decreterà la sconfitta di questo partito, proprio l’isola scoprirà di avere soltanto cambiato il mazzo di carte, di avere sostituito un partito per un altro.
Perché in fondo l’interrogativo che si pongono i politici del centrodestra siciliano è il seguente: e se Lombardo avesse millantato credito? Se a Roma avessero fatto male i conti e il premio di maggioranza al senato sarebbe scattato comunque senza l’alleanza con Lombardo? Certo, sicuramente uno scontro all’arma bianca con gli autonomisti avrebbe significato la perdita del governo siciliano. Ma il punto è un altro: la giustificazione dell’alleanza è stata data solo ed esclusivamente in chiave nazionale, per agguantare qualche seggio in più a Palazzo Madama. Sarebbe ancora accettabile un ragionamento di questo tipo se il 15 aprile si dovesse scoprire che il Pdl avrebbe potuto farcela comunque?
Strani scenari: se così fosse rimarrebbe ingiustificata questa ulteriore battuta d’arresto nei confronti dell’isola che mentre assisterà all’avvento della terza repubblica nel resto d’Italia, al suo interno dovrà fare i conti per almeno altri cinque anni con la seconda, e anche con un po’ di vintage della prima considerando che a passarsi il testimone sono ancora esponenti di quella gioventù manniniana che continua a decidere le sorti di questa terra.